Identità e radicalizzazione nelle banlieue francesi

Identità e radicalizzazione nelle banlieue francesi

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Pubblichiamo la postfazione di Giuseppe Civati al libro Banlieue, tra emarginazione e integrazione per una nuova identità di Pier Paolo Piscopo (ed. Il formichiere, 2018), un testo che, scrive nella prefazione Donatella Di Cesare, filosofa che insegna all’Università di Roma La Sapienza, «è un viaggio nelle banlieue, in quei sobborghi della povertà, in quell’hinterland dello sconforto e della desolazione,che ben pochi conoscono. Viaggio sociologico, ma anche e soprattutto politico». Il saggio si cala nella realtà sociale da cui provenivano i terroristi degli  attacchi effettuati nel 2015 a Parigi, per «esplorare l’universo dei giovani, giovanissimi, adolescenti che scelgono l’ iter del terrore», in questo modo contribuendo anche a fare ricerca scientifica sull’immigrazione e sui contesti urbani ghettizzati e delimitati da invisibili ma assai concrete frontiere.

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Far tesoro di ciò che scrive Pier Paolo Piscopo è essenziale per chiunque intenda affrontare la questione dell’immigrazione. Invita a diffidare dell’essenzialismo di chi considera in blocco la questione, come se fosse la stessa in ogni luogo e in ogni Paese, cogliendone la complessità e le articolazioni, culturali, politiche e anche amministrative.

L’Italia ha abbondantemente sprecato il vantaggio di essere giunta più tardi di altri ad affrontare la questione migratoria, in ragione di un passato coloniale minore (che pure conta moltissimo nella partita attuale, come possiamo osservare tra Libia, per un verso, ed Eritrea, per l’altro). Dagli anni Novanta in poi avremmo potuto e dovuto costruire un modello di convivenza e di interculturalità più avanzato, che prendesse atto dei risultati e dei limiti di quanto accaduto altrove. Non solo non lo abbiamo fatto, ma la nostra legislazione – prodotta in larga misura dai governi della destra – e rimasta tale anche con i governi della cosiddetta sinistra: esecutivi, tutti quanti, preoccupati soprattutto del dato legato alla sicurezza e alla gestione degli arrivi, più che alla gestione del fenomeno in tutti i suoi passaggi.

La debolezza istituzionale del nostro Paese non ha giovato, come non ha giovato la ritirata amministrativa dei Comuni, in un periodo di forte accentramento verso lo Stato centrale, dal punto di vista politico e finanziario.

Ciò si può valutare soprattutto nei luoghi dove “precipitano” migrazione e globalizzazione, nelle comunità del Nord Italia produttivo, nelle grandi aree agricole del Centro-Sud, nella capacità di seguire percorsi che rendessero più semplice l’inserimento di persone venute da lontano nei nostri quartieri e nella nostra vita quotidiana. Processi spesso deregolamentati nei quali la concentrazione dei migranti e avvenuta soprattutto per interesse degli italiani, nelle scelte del lavoro e nelle politiche degli affitti. La scoperta che gli immigrati rendano sotto il profilo economico non è recente, nonostante una certa volgare propaganda voglia far pensare, ma e da tempo che quartieri storici delle nostre città sono stati ripopolati da comunità straniere, con un certo profitto da parte dei proprietari di case. Ciò, unito a una certa indifferenza e scarsità di mezzi delle Amministrazioni locali, ha fatto scivolare alcune situazioni verso una convivenza a volte difficile, a volte totalmente inesistente per via di una totale separatezza tra gruppi autoctoni e gruppi immigrati, ma non per questo meno pericolosa. Rimanere «estranei» non è mai una buona soluzione.

Da ultimo, ciò su cui poco si è riflettuto e sul nesso diritti-doveri. In alcune regioni soprattutto si è preferito alimentare processi distinti: una forte integrazione nel mondo del lavoro e nei suoi processi e uno scarsissimo rilievo ai fenomeni di assunzione piena di residenza, prima, e di cittadinanza poi. Ciò si è visto sotto il profilo commerciale, aggregativo, religioso. Riconoscere diritti significa pretendere ed esigere doveri, ma si è preferita una meno impegnativa via intermedia, con più di uno slancio di controproducente xenofobia amministrativa, su kebab, moschee e altri “casi” creati ad arte per essere strumentalizzati elettoralmente e mai affrontati con soluzioni amministrative rigorose e equilibrate.

Gran parte del “lavoro” che è mancato in altri ambiti e stato fatto, senza ulteriori risorse aggiuntive, dalla scuola italiana, a cui andrebbe attribuito il premio Nobel per la Pace e anche quello per l’Economia, per avere affrontato a mani nude un fenomeno epocale e nuovo per il nostro Paese. Pier Paolo Piscopo, con il proprio studio documentato e critico, ci offre un punto di vista e informazioni preziose per farci recuperare questi trent’anni di luci e di ombre e per aprire a una stagione nuova, in cui l’Italia cresca con un modello inclusivo, legalitario per tutti e che a tutti consenta di vivere bene. Molte esperienze ci dicono che ciò è possibile, ma il lavoro culturale a cui Piscopo ci invita e da rinnovare ogni giorno e da rappresentare politicamente se si vogliono evitare guai e cogliere opportunità spesso sconosciute a una classe dirigente “ospite” che ha avuto e ha ancora un profilo al di sotto delle aspettative di un mondo «grande e terribile» in continua trasformazione.

Giuseppe Civati

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Info e contatti con l’autore: https://www.pierpaolopiscopo.com



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