Kirghizistan, 300mila in fuga dal massacro

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Mosca – Donne e bambini dormono vicino al fiume. Non hanno coperte, né cibo. Mancano anche i medicinali, e i malati aumentano sempre di più. Sono almeno centomila, sfuggiti ai massacri che ancora continuano notte e giorno nelle vicine città  di Osh e Jalal Abad nel lembo meridionale del Kirghizistan, sconvolto da un’ennesima guerra civile. Altre colonne di disperati sono in marcia da giorni per raggiungere le rive del Syr Darya, voluto da Stalin come frontiera tra Kirghizistan e Uzbekistan, e adesso unica speranza per un popolo intero di raggiungere la salvezza. I testimoni parlano di almeno altri duecentomila in fuga verso un confine ufficialmente chiuso e presidiato dall’esercito uszbeko. Dopo aver accolto i primi diecimila profughi l’Uzbekistan ha deciso di chiudere le porte. «Siamo un paese povero. Non possiamo permetterci altri ingressi». All’Onu si parla già  di «catastrofe umanitaria». Aerei cargo sono pronti a partire con aiuti, tende e viveri dagli Usa e dalla Russia, ma non si sa ancora bene come farli arrivare ai profughi che si stanno ammassando in una area senza via d’uscita.

Per le strade delle città  la battaglia continua tra le fazioni di due etnie, quella kirghiza e quella uzbeka, divise da un odio storico che ha già  portato ad altri scontri sanguinari. Il bilancio ufficiale è di quasi duecento morti e di duemila feriti. Ma le cifre reali sarebbero molto più grandi. La violenza selvaggia degli scontri è tutta nel racconto di un anziano chirurgo di Osh, Adylbeh Zhanbayev, raggiunto dal quotidiano moscovita Kommersant: «Continuano ad arrivare feriti. Pochi sono colpiti da armi da fuoco. Ci sono cranii fracassati, ferite da taglio, molte ragazze violentate e con i seni amputati. Per non parlare delle ustioni, spesso mortali, di quelli cui hanno incendiato la casa». Le poche immagini che arrivano da Osh e Jalal Abad confermano la sensazione di una guerra tra poveri combattuta con ferocia. Tra i roghi e le macerie si aggirano combattenti armati di antiquati fucili da caccia, randelli e manici di badili con coltelli da cucina fissati con il nastro adesivo a mo’ di baionetta.

Il fragilissimo governo kirghizo di Rosa Otunbayeva, arrivato al potere in aprile dopo la rivolta popolare che ha cacciato il presidente Bakijev, sa bene di non riuscire a far niente per fermare le violenze. Il paese è spezzato in due. La capitale Bischek è isolata. Per questo la signora Otunbayeva continua a chiedere a Putin e Medvedev di inviare truppe russe per ristabilire la calma. Come avvenne nell’89 quando, a sedare gli scontri, Gorbaciov mandò l’Armata Rossa. Ma erano altri tempi e il Kirghizistan faceva parte dell’Urss. Adesso Mosca prende tempo, aspetta probabilmente una richiesta ufficiale dell’Onu. Intanto ha mandato un battaglione di parà  a rafforzare il contingente russo che presidia la base di Kant a pochi chilometri dalla capitale. A poca distanza dalla base aerea di Manas affittata dal Kirghizistan agli Stati Uniti per i rifornimenti delle truppe americane in Afghanistan. Sia russi che americani hanno molte remore diplomatiche su un intervento, seppur umanitario, in terra straniera. Lo stesso governo non è ancora legittimato. E’ ancora provvisorio e avrebbe dovuto essere ratificato da un referendum previsto per il 27 giugno e adesso in forte dubbio. Proprio a questa coincidenza Rosa Otunbayeva si aggrappa per accusare l’ex presidente Bakijev, esule in Bielorussia, di aver fomentato i disordini per riproporsi come salvatore della patria. Testimoni, citati dalla tv di Stato, raccontano di mercenari apparsi a Osh, città  natale di Bakjiev, poco prima degli scontri. Sarebbero stati loro a provocare la guerra civile attaccando case e negozi uzbeki e kirghizi risvegliando un odio antico sempre pronto a esplodere. Ricostruzione non provata ma molto attendibile che aumenta le difficoltà  di intervento di Mosca e di Washington. Mentre continua la marcia dei disperati verso una frontiera sbarrata.


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