Minori e carcere. A Rebibbia, andata e ritorno
Ael quella mattina si è svegliata alle 7 in punto. La sera prima ha scelto i vestiti da indossare. Li ha scelti con cura e con cura li ha ripiegati sulla sedia. I fratelli uno dopo l’altro si svegliano, e uno dopo l’altro si mettono la maglietta, i pantaloni e, perché no, il cappellino. Al suo risveglio il padre trova i ragazzini in attesa, vestiti e sorridenti. A pochi metri da loro, altri tre bambini cercano di rimanere in equilibrio mentre il padre gli annoda i lacci delle scarpe. Al campo Rom di Castel Romano ancora si percepiscono i colori dell’alba. È sabato mattina, e Ael e i suoi fratelli sanno che qualcuno, il più delle volte Stefania, verrà a prenderli. Renato e Janko, i due papà, li accompagneranno. Percorreranno la Pontina, per costeggiare l’Eur, incrociare il raccordo anulare, sbucare sulla Tiburtina e infine arrivare in via Bartolo Longo 92, alla Casa circondariale femminile di Rebibbia.
È IL SABATO in cui il carcere apre le porte ai figli delle detenute. È il sabato dell’Area minori. Per chi non mastica il vocabolario carcerario fatto di «domandine», «spesine», «spacci», «pacchi» e permessi vari, il termine «Area minori» può voler dire qualunque cosa. Ma a Rebibbia ogni termine indica una cosa e una soltanto. L’Area minori, ricorda il sito del ministero della Giustizia, è un’area a cui hanno accesso solo i figli minori delle detenute. Si entra alle 10, si esce alle 14. Ma cosa significa per le donne avere accesso a quest’area? Giovanna Longo, una delle volontarie storiche di Rebibbia, ci tiene a precisare che non sia da considerarsi un «premio» per la detenuta, ma un diritto. «A prescindere dal tipo di condanna, a prescindere dalla condotta, la donna ha il diritto d’essere madre, anche in carcere. Si cerca di recuperare un po’ di normalità, tramite il contatto, il cibo e il gioco». «Alcuni volontari – continua Giovanna – negli anni si sono offerti di andare a prendere i bambini, per esempio nei campi Rom, ma sono sempre troppo pochi. Se si riescono a portare tre, quattro, anche sei bambini, come scegli quale bambino ha più diritto di andare a trovare la madre? Non puoi scegliere».
Ripenso alle parole di Giovanna mentre intravedo Ael dare un pizzicotto al fratellino che le ruba il cappello. Il padre, Janko, guarda fuori dal finestrino. Questa mattina saranno i figli a dirgli come sta Zara, la moglie. Janko è un uomo alto e magro, capelli brizzolati gli incorniciano il viso. «Le mattine che so di poterla vedere – racconta timidamente Janko – mi sistemo tutto. Insomma, cerco di essere più bello!». È un anno che Janko e i bambini fanno la spola tra il carcere e il campo. «Ti abitui anche alla tristezza. All’inizio era difficile fare sia da mamma che da papà, ma poi ti lasci andare, come il vento». Sin da subito i figli sapevano dov’era la madre. La madre e il fratellino più piccolo. Per la legislazione italiana infatti le madri detenute possono tenere con sé il figlio, a patto che abbia meno di tre anni. Ael è il ritratto della madre e il padre, guardandola, si ricorda la prima volta che vide sua moglie. «Siamo scappati via insieme da piccoli ma, una volta avuto il consenso dalle famiglie, ci siamo fidanzati. Abbiamo fatto otto figli, la prima è nata nel 1991». Mentre in lontananza si intravede il muro di Rebibbia, Janko abbassa la voce. Lì dentro c’è Zara, sua moglie. Non è l’unica. Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio di Antigone, le donne in carcere rappresentano il 4% della popolazione reclusa su tutto il territorio nazionale. Rebibbia «ospita» gran parte di quel 4%: 350 donne. I papà accompagnano i figli al gabbiotto. A dividere il dentro dal fuori c’è una panchina arrugginita su cui i bambini si appallottolano in attesa di entrare. Lo spazio dedicato all’Area minori è una stanza di media grandezza, con quattro o cinque tavoli nel mezzo. Le pareti sono spoglie, l’unica cosa appesa è un poster sbiadito: «La Biblioteca vivente», iniziativa di febbraio 2017.
FUORI DAL PALAZZONE il grigio del cortile attende d’essere calpestato da una decina di ragazzini seguiti dall’agente penitenziario. Le madri si accalcano alla porta, i ragazzini vorrebbero volare. Ad accompagnare Giovanna nel mondo di Rebibbia c’è anche Stefania. Entrano ed escono dal carcere romano da quando nacque A Roma Insieme, un’associazione creata per sostenere le donne detenute, con l’obiettivo di eliminare il carcere quantomeno per i bambini. Stefania ripercorre le giornate dell’Area minori raccontando di mamme che passano giorni interi a cucinare per i figli, anche chi ha poco si ingegna. «”Voi ‘na banana? O voi er supplì? Magna che se fredda!”. E poi ancora patatine, teglie di cannelloni… e il tutto a me, qui nel carcere, fa venire in mente le giornate a Fiumicino, al mare. Quando si arrivava in spiaggia la mattina presto, portati da un pullman che dai quartieri di periferia scaricava tutti in spiaggia».
CI SONO I RAGAZZINI più spavaldi che appena vedono le madri «le cazziano come fossero dei mariti stanchi e disillusi», altri, specialmente le ragazze – continua Stefania – «restano tutto il tempo attaccate alle madri, stanno lì senza dire una parola, o almeno non a noi. Poi all’ora dell’uscita se ne vanno e scompaiono; le rivedremo il mese successivo, diversi vestiti ma identico modo di fare, già piccole donne che si portano dietro i fratellini».
TRA I TAVOLI una madre pettina la chioma della figlia con fare provocatorio, quasi a dire «se ce stavo io a casa col cavolo che te facevo usci’ conciata così!». Un altro figlio sembra piangere, ma la madre si trattiene. «È la prima volta che viene a trovarmi, gli avevamo detto che stavo all’estero. Poi ho deciso che di cazzate ne avevo già dette tante, perciò eccoci qua». Il figlio la guarda e mima un sorriso: «Va bè ma’, non è l’estero, però pe’ esse un carcere te poteva anda’ peggio!». Dopo tre ore la sala è un’esplosione di pennarelli senza tappo, fogli strappati, panini mozzicati e abbracci rubati. L’ultima ora è quella in cui le donne cercano di dire più cose possibili ai figli. «Dì a tu padre che lo amo, e se te lo chiede diglielo che sto bene, che c’ho i capelli più lunghi e che me so’ pure dimagrita!».
IN FILA PER DUE, i figli si allontanano dalle mamme. Loro, le madri, lottano per un pezzo di finestra. I piccoli corrono verso l’uscita, i più grandi calibrano ogni passo, qualcuno rimane inchiodato davanti al portone. Al cancello i papà aspettano i figli come all’uscita di scuola. Al posto delle cartelle i bambini trascinano borse piene di lasagne e patatine. Entrati in macchina, Renato inonda di domande i figli: «Come sta? Le avete detto che sto sistemando le cose con l’avvocato?». Sono sette mesi che Renato non vede Angelica, la moglie. «Non la posso vedere perché risulto ancora clandestino. Neanche la piccola che sta con lei ho più visto». Mentre ripercorriamo la Tiburtina i ragazzini dietro si addormentano, e Renato scrutando il finestrino si lascia andare. «Mia moglie è preoccupata di come stanno i nostri figli. Voi gagè (non-zingari) avete una lavatrice, una doccia che funziona sempre. Io la mattina non posso lavarmi con l’acqua del campo, è marrone, puzza». Sulla Pontina, poco prima dello «Shopping Village Castel Romano», ci fermiamo. Il campo Rom di Castel Romano è il più grande di Roma, uno dei più grandi d’Europa con i suoi circa 1.000 abitanti, la maggior parte dei quali bambini. Ael chiude la portiera della macchina, ci guarda e corre via.
Questo è uno dei reportage realizzati dagli allievi del corso sul “reportage sociale” tenuto da Giuliano Battiston e Massimo Loche alla Scuola del sociale di Roma.
FONTE: Marica Fantauzzi, IL MANIFESTO
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