I rider del cibo preparano la lotta. “È un lavoro, non un hobby”

I rider del cibo preparano la lotta. “È un lavoro, non un hobby”

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BOLOGNA. Davanti alle telecamere alcuni si mettono in spalla il “cubo”, con i nomi che in tanti abbiamo imparato a conoscere: Deliveroo, Foodora, Glovo, Just Eat, Sgnam… «Adesso vogliamo che conosciate anche noi, i rider: ragazzi e ragazze che corrono sulle bici o in moto, che sono costretti a sorpassarvi o a tagliarvi la strada perché se fai una consegna in ritardo magari non ti chiamano al lavoro per una settimana». Prima assemblea a Bologna, nell’ex monastero cistercense delle monache di Sant’Orsola, dei giovani (e non solo) che portano nelle case pizze, sushi, hamburger o pasti completi. «E forse è meglio che non ci chiamiate più rider, ovvero piloti o motociclisti. È un termine fighetto. Se dici che sei un rider, magari pensano che stai giocando, che questo più che un lavoro sia un divertimento.
Chiamateci fattorini o, per la precisione, ciclo o moto fattorini».
Sono quasi duecento, nell’ex convento. «Siete tantissimi», dice subito Daniele, arrivato dal Belgio assieme al collega Jerome di Parigi. «Noi quando ci siamo riuniti la prima volta a Bruxelles eravamo in 15». Sono 300 solo a Bologna, i “fattorini”, e tremila in Italia, da Roma in su, in continua crescita. «Io prendo 7 euro all’ora, sia che faccia una consegna o che ne faccia 6. Da noi non c’è il cottimo». «Io invece incasso 4 euro all’ora fissi, più una percentuale sulle consegne.
Sono uno studente: faccio una media di 400 euro al mese, ma quando sono sotto esame fatico ad arrivare a cento». Tommaso, portavoce dei fattorini bolognesi, racconta che per chi lavora a “tempo pieno” la forbice va dai 5 ai 7 euro, a livello nazionale. «Facciamo una media di 6 euro. Con 40 ore alla settimana, lavorando sia con i pranzi che con le cene, porti a casa 900 euro al mese. Ma non ne facciamo solo una questione di soldi. Vogliamo far sapere a tutti che siamo lavoratori e che abbiamo voglia di alzare la testa. L’occasione buona è il Primo Maggio. A Milano i rider saranno in testa al corteo dei sindacati, a Bologna faremo una biciclettata con i nostri cubi sulle spalle per rivendicare i nostri diritti. Ci saranno anche scioperi. E, come gli altri lavoratori, faremo festa». La sentenza di Torino (il tribunale ha stabilito che quello dei rider di Foodora non è da considerarsi lavoro dipendente) è stata una mazzata, ma non ha fermato il movimento. Anzi.
«Stiamo preparando — dice il portavoce Tommaso — piattaforme di lotta in tante città. Primo punto, la sicurezza, con caschi e assicurazione acarico delle aziende. Chiediamo l’indennità di malattia e aumenti quando si lavora con il maltempo o nei giorni festivi.
Vogliamo un minimo orario garantito e rifiutiamo il cottimo assoluto. A guidare le nostre vite non può essere solo un algoritmo».
A Bologna rider, Comune e sindacati stanno elaborando una Carta dei diritti per questi nuovi lavoratori. Ci sono stati incontri anche al Comune di Milano. Ma il cammino non sarà facile. «Le aziende — i racconti arrivano da mezza Italia — si stanno comportando in modo strano.
Ora che arriva la bella stagione e la gente va a mangiare fuori le consegne diminuiscono. In una serata ne fai tre invece di dieci.
Ma le piattaforme, invece di ridurre, aumentano le “assunzioni”. Hanno saputo che stiamo preparando le lotte e allora organizzano la contromossa: quelli di noi che chiederanno il rispetto dei diritti saranno lasciati a casa. Tanto, a lavorare saranno i nuovi assunti». «Vogliono continuare come oggi. Se sei pagato solo a cottimo, e in un’ora lavori dieci minuti, vuol dire che per 50 minuti sei uno schiavo, costretto a stare lì a disposizione senza nessun compenso».
Carmelo Massari, sindacalista Uil, racconta che dieci anni fa a Bologna ci furono 180 vertenze per mettere in regola i call center. «I giovani furono assunti, alla fine. Le aziende che avevano accettato i contratti decisero però di delocalizzare in Romania. Per fortuna sarà difficile delocalizzare i rider».
Ma si possono sempre assumere romeni… «Io penso — dice il sindacalista — che l’unica strada da prendere sia quella di denunciare le piattaforme per intermediazione illecita di manodopera. Nella gran parte dei casi siamo di fronte a veri caporali digitali».
Escono anche parole antiche, dalle bocche di questi ragazzi impegnati nel lavoro più moderno. «Dobbiamo essere uniti». «Dobbiamo costruire noi le app e poi offrire i nostri servizi alle aziende mettendoci in cooperativa». Vengono in mente le parole di Camillo Prampolini nel settembre 1893: «Uniti siamo tutto, discordi siamo nulla».
Forse l’Emilia Romagna non è stata scelta a caso, per la prima assemblea. «A mezzanotte in punto / si sente un gran rumor / sono gli scariolanti / che vanno a lavorar…». Perché a mezzanotte? Giuseppe Vettori lo ha spiegato nel suo libro Canzoni italiane di protesta. «Alla mezzanotte della domenica il caporale suonava il corno e i braccianti correvano verso l’argine. I primi ad arrivare venivano assunti per tutta la settimana, gli altri restavano disoccupati fino alla domenica successiva». Si era alla fine dell’800. Anche allora si lavorava a chiamata. Con il corno, antesignano della moderna app.

Fonte: JENNER MELETTI, LA REPUBBLICA



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