Palestina. Il «panico» del ritorno uccide la pace, strage a Gaza
Non è un semplice scontro e non lo si può misurare solo con il numero delle vittime. Comunque, a poche ore dall’inizio degli incidenti alla frontiera che chiude la Striscia di Gaza, i morti mentre scriviamo sono già quindici e centinaia i feriti.
Già nelle scorse settimane, la tensione era palpabile e sempre più crescente: le varie manifestazioni in programma recavano un titolo, «la marcia del ritorno», che scuoteva l’essenza stessa di Israele. Il ritorno dei rifugiati palestinesi.
Il ritorno di quanti furono espulsi dalle loro case o decisero di fuggire nel 1948. La guerra del 1967 cambiò la realtà territoriale del conflitto israelo-palestinese e la questione territoriale offrì – forse lo fa tuttora – la possibilità di arrivare un accordo storico fra i due popoli, fra due movimenti cresciuti a partire dalla fine del XIX secolo.
Da una parte, il sionismo che proponeva «il ritorno alla terra dopo l’espulsione» quasi duemila anni prima; dall’altra il nazionalismo palestinese che iniziava a manifestarsi e si accentuava nel confronto con il sionismo. E a partire dal 1948 ecco l’idea del «ritorno alla terra dopo l’espulsione», come parte dell’essere palestinese.
L’inesistente processo di pace dopo l’assassinio del premier israeliano Ytzhak Rabin da parte di un israeliano estremista nel 1995, offre teoricamente la possibilità di un accordo basato sulla spartizione: i territori occupati nel 1967 sarebbero la base per uno Stato palestinese e il tanto atteso ritorno sarebbe circoscritto a quei territori e – forse – alcuni chilometri quadrati torneranno a quello che adesso è Israele.
L’altra possibilità, uno Stato unico in tutti i territori attualmente occupati da Israele, apre la porta a due possibilità: un apartheid sotto il dominio israeliano, oppure uno Stato democratico senza più la connotazione ebraico-sionista attuale.
I 343 chilometri quadrati della Striscia di Gaza nella quale due milioni di palestinesi vivono in miseria e sulla soglia di un’enorme crisi umanitaria, sono circondati da una zona militare chiusa che però non è ermetica, tanto che frequentemente alcuni palestinesi riescono ad attraversarla. Ma nelle ultime settimane il nervosismo è cresciuto enormemente; tutti temevano quanto sarebbe successo di fronte a una massa di palestinesi pacificamente in marcia per cercare di materializzare visivamente il ritorno.
Che succederà? Dovremo reprimerli con la forza e il mondo ci accuserà di crimini contro i civili? Il panico creato da questo possibile «ritorno» tocca i sentimenti più profondi degli israeliani. È anche la giornata della terra. In questo stesso giorno, nel 1976, le confische delle terre palestinesi in Israele portarono a scontri sanguinosi e la polizia israeliana assassinò sei palestinesi cittadini arabo-israeliani.
Oggi, in una delle espressioni più imponenti della resistenza palestinese, migliaia di persone stanno manifestando lungo il confine della Striscia. Enorme il nervosismo fra le truppe israeliane: «Potrebbero passare il confine e minacciare lo Stato»; ed ecco le prime vittime.
Era «previsto». Di fronte a un atto simbolico evocante l’idea del ritorno, l’uso della forza da parte israeliana è un messaggio ben chiaro: chi vuole attraversare la frontiera può essere solo un uomo morto, la forza è dalla nostra parte, attenzione.
Tutto ciò appartiene a una storia che la destra israeliana non può più permettersi: il panico creato dal ritorno è un chiaro condizionamento nei confronti della necessità di arrivare a un processo di pace evitando un peggioramento certo della situazione.
Dopo un lungo periodo di «quasi silenzio» del mondo intero, durante il quale solo proteste sporadiche hanno fatto ricordare agli israeliani che non possono continuare a dominare milioni di palestinesi senza diritti, ora la frontiera esplode.
È un nuovo giorno della terra e il sangue versato è un’avvisaglia di conseguenze più gravi se non si prenderà una nuova strada.
FONTE: Zvi Schuldiner, IL MANIFESTO
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