Aliona e le altre. La rivolta delle donne

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È E’ un giorno d’estate di due anni fa. Nei reparti gestiti dalla cooperativa Dragon Fly il caldo è asfissiante, il termometro non è sceso per tutta la mattina sotto i 35 gradi. A Padova piove fuoco d’estate. Le donne della profumeria sono in piedi dalle sei del mattino, hanno riempito uno scaffale dietro l’altro, per otto ore di fila. Sono donne stanche, costrette a spaccarsi la schiena per 13-14 ore al giorno. Con i “picchi”, hanno lavorato anche 300 ore in un mese. La merce deve essere allineata per bene e in fretta, i capireparto della cooperativa agitano le carte con gli ordinativi, bestemmiano e urlano in dialetto agli operai migranti che il lavoro è troppo lento, poi ritornano negli uffici, al fresco dei condizionatori. Acqua & Sapone, la società  committente, è sempre vicina ai suoi clienti e ci tiene ai prodotti: non capovolgere, movimentare con cura, non fermarsi perché stanno arrivando i camion a caricare; e se vuoi andare in bagno, devi prenotare la fermata, e non puoi bere perché da giorni non arrivano i boccioni dell’acqua.

Alle due scatta la rivolta silenziosa delle donne dell’Est. All’inizio i capi non capiscono. Prima l’una, poi l’altra, poi un’altra ancora vanno verso l’uscita per timbrare il cartellino. Il lavoro si blocca, i muletti sono fermi, chi ha ancora uno scatolone per le mani lo mette giù. E allora i mastini della proprietà  scattano come molle: “Tu hai finito qua, domani non tornare”. E ancora: “Il permesso di soggiorno te lo dimentichi ora”, “Sei nei guai, stronza”.

Aliona questa storia la racconta così: “In un giorno ci siamo liberate di cinque anni di sfruttamento. Trattate come schiave, senza diritti. Chi alzava la testa veniva licenziato o trasferito e alla fine era lo stesso, perché il lavoro diventava talmente pesante che ti costringevano a dimetterti”. Ma la protesta non finisce: il giorno dopo tocca agli uomini del reparto preparatori bloccare il lavoro. Tutti i 170 addetti del centro di distribuzione rimangono fermi. Nel grande magazzino di Padova arrivano le merci dalle aziende produttrici che poi ripartono per i 620 negozi di Acqua & Sapone, “la più grande catena della bellezza e dell’igiene” italiana. Dietro ogni angolo di città  un negozio: la convenienza a portata di mano. Ma ogni euro risparmiato costa caro agli uomini e alle donne venute da oltre frontiera con le ambizioni di una vita migliore o, più semplicemente, per raccogliere i soldi e tornare a casa, dove le cose sono complicate per chi vive di fatica. In Italia non lavorano mai meno di 200 ore al mese, ed è prassi che i padroni non paghino gli straordinari. È lo sfruttamento in salsa padana: dovrebbero guadagnare sei euro e venti l’ora, ma la paga annega in un fiume di ore lavorate al nero. Così imparano a fare i calcoli sulla busta paga e scoprono che guadagnano talvolta appena un euro e cinquanta centesimi l’ora.

Insomma, quell’estate di due anni fa una babele di lavoratori che parlano trenta lingue diverse, nella civilissima Padova, ha trovato il coraggio di ribellarsi alle minacce, ai soprusi. E non è un caso che a guidare la ribellione siano state le donne. Alcune di loro erano state costrette a subire molestie sessuali per non perdere, in un colpo, lavoro e permesso di soggiorno, così come prescrive una legge balorda che qualcuno si ostina a difendere.

“I tre, quattro mesi successivi sono stati una battaglia continua. Alla fine i padroni delle cooperative sono stati costretti a mollare – racconta Adriatic, un addetto albanese del reparto preparatori –. È stata dura. Ero tra quelli più esposti, e avevo sempre qualcuno addosso che mi controllava e mi assegnava i lavori più pesanti. Ma facevo tutto secondo le regole, rispettavo orari e mansioni. Quindi non potevano dirmi niente”. Sono state settimane, ricordano i lavoratori, di grande solidarietà  e di aiuto reciproco. Prima, invece, spesso stavano l’uno contro l’altro. Le storie che raccontano spesso si rassomigliano.

Aliona è partita dalla Moldavia dove faceva l’insegnante di lettere per 50 euro al mese. Troppo poco anche per vivere. “Dal mio paese – racconta – l’Italia appare come il luogo dei sogni, con un clima meraviglioso e bella gente”. Si parte e si arriva nel Nord-Est d’Italia, subito oltre il confine. Non è più il Veneto che, ancora dopo la guerra, è stato luogo di grandi migrazioni verso Americhe o Nordeuropa; il Veneto della fame e della pellagra che instupidiva i contadini. È una regione ricca che guarda al presente e conosce la faccia feroce della crisi. Per molti è stato uno shock, una volta arrivati qua, essere trattati come servi. Eppure Padova non è Treviso o Verona. È la città  delle università , dei grandi professori.

Certo, il nuovo vento del Nord arriva anche qui, e non risparmia. Quattro anni fa un’amministrazione di centrosinistra fece erigere quello che è poi stato definito il “muro della vergogna” tra via Anelli, un quartiere degradato abitato soprattutto da immigrati clandestini, e il resto della città : pannelli di lamiera alti due metri e posti di blocco all’interno del quartiere. Una brutta storia. Il muro è stato poi abbattuto, ma rimane quello invisibile dell’emarginazione. Un immigrato deve lavorare e non dare problemi, rendersi invisibile, se possibile. Solo così qualche diritto ce l’ha. “Fuori dall’azienda non ci sentivamo discriminati – dice ancora Aliona –, ma dentro eravamo in carcere. E così, un giorno, dopo 14 ore di lavoro, siamo andati al sindacato”. La Cgil è intervenuta da subito per dare una mano ai lavoratori stranieri. Li ha istruiti sulle norme del contratto e li ha appoggiati quando hanno messo in atto lo sciopero bianco: tutto fatto secondo le regole, niente di più, niente di meno.

La prova del fuoco arriva l’8 maggio 2009. Dopo mesi di lotte – successivi alla “rivolta delle donne” – le vecchie cooperative lasciano e subentra la Veneto Servizi, un consorzio di imprese che però vuole sbarazzarsi del 60 per cento degli occupati nella piattaforma logistica padovana, ma basta un giorno di sciopero per mandare in crisi gli intenti della società  che è costretta a trattare. Non solo il consorzio non licenzierà , ma cede su tutta la linea. I lavoratori ottengono il riconoscimento della malattia e della maternità , le ferie pagate; strappano anche il diritto alla tredicesima e all’integrativo regionale. Poi fanno causa anche ai vecchi proprietari per ottenere il pagamento di cinque anni di straordinari.

Con i diritti il sindacato entra in azienda. I 170 lavoratori votano i loro otto delegati. Tra loro ci sono anche Aliona e Adriatic, che hanno imparato a leggere una busta paga e studiano per insegnare ai compagni i propri diritti. Ma nel sottobosco delle imprese dei servizi la discriminazione continua. “Funziona così – spiega il segretario provinciale della Filt, Romeo Barutta –: le grandi reti di distribuzione e i colossi della logistica affidano i servizi di pulizia e di movimentazione delle merci alle cooperative, che diventano, spesso, i luoghi dello sfruttamento. Non è come nella grande industria, dove ancora regge il contratto. In queste cooperative vengono assunti soprattutto immigrati perché sono meno inclini a ribellarsi: lavorano in cambio del permesso di soggiorno. E dal 2000, con la Bossi-Fini, le condizioni di lavoro sono peggiorate”.

Solo a Padova l’elenco delle multinazionali che si avvalgono delle “cooperative dello sfruttamento” per sostenere la propria rete di distribuzione è lungo: Tnt, Thl, Sda, Bartolini, Ceva, Antonini, tra quelle più importanti. “Spesso la grande catena conosce le condizioni dei lavoratori dell’indotto – sottolinea Barutta – ma chiude un occhio, a volte tutti e due, per tenere bassi i costi”. Ora l’obiettivo della Cgil è quello di esportare la lotta dalle cooperative dell’indotto di Acqua & Sapone anche in altre piccole aziende di servizi. Qualcuno dei dipendenti della Veneto servizi si aspetta un finale da film. Ha visto Bread and Roses di Ken Loach e ricorda che nella Los Angeles degli anni 90 la lotta dei lavoratori messicani di un’impresa di pulizia portò a strappare, dopo un conflitto durissimo, condizioni di lavoro dignitose per tutti. Statunitensi compresi.


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PRECARIATO
  Mi è sembrato strano che in questi giorni di dibattito serrato intorno all’accordo interconfederale nessuno abbia riflettuto più di tanto sulle forme del “peso” delle singole organizzazioni sindacali inrelazione agli iscritti che rappresentano.

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