Guerra in Yemen, c’è speranza per la lobby delle armi
«La notte tra il 25 e il 26 marzo del 2015, quando i sauditi hanno iniziato a bombardare Sana’a, siamo stati colti di sorpresa: le Nazioni unite non erano state allertate, nella capitale yemenita c’erano centinaia di funzionari delle organizzazioni internazionali che sono stati subito evacuati perché di fronte alle bombe le società assicurative non rispondono».
Il capo missione dell’Onu in Yemen dal 2014 al 2016, Paolo Lembo, ricorda con sgomento quei momenti. Tre anni dopo, i bombardamenti della coalizione saudita hanno mietuto 15mila vittime civili a cui vanno aggiunti i tanti morti per fame e malattie, soprattutto per le epidemie in corso di colera e difterite. Impossibile portare cibo e medicinali, a causa del blocco aero-navale messo in atto dalla coalizione sunnita.
I
l paese è spaccato grossomodo in due: il nord controllato dai ribelli sciiti Houthi e il sud formalmente in capo al governo di Mansour Hadi ma in realtà in mano alle milizie separatiste. Sul territorio sono presenti anche al-Qaeda e lo Stato islamico.
Al-Qaeda aveva riscosso un certo successo presso la popolazione, a cui aveva fornito un sistema di welfare soprattutto nella regione sud-orientale dell’Hadramaut, per poi essere colpito dalle intense operazioni militari delle forze armate statunitensi.
Non c’è conflitto più complesso di quello dello Yemen, che non si può ridurre né a una lotta tra sunniti e sciiti né a una guerra per procura tra Arabia saudita e Iran.
Lo Yemen ha la cultura più ricca della penisola araba, ma dal punto di vista politico è sempre stato frammentato, dominato dalle tribù. Uno Stato illusorio, che potrebbe essere oggetto di una partizione. Mentre la diplomazia tace.
In questa situazione di stallo, Lembo reputa indispensabile «intervenire sui flussi di armi vendute alla coalizione guidata dai sauditi e utilizzate contro la popolazione yemenita». Sono molti i paesi coinvolti, in cima alla lista gli Stati uniti: di passaggio a Riyadh, lo scorso maggio il presidente Donald Trump aveva firmato contratti di vendita di armi per ben 120 miliardi di dollari.
In seconda battuta, suggerisce Lembo, bisogna fare in modo che «le parti coinvolte nel conflitto esercitino una flessibilità nella discussione degli accordi di pace, flessibilità che al momento non c’è. Ed è poi necessario far fronte alle necessità immediate della popolazione, che ha bisogno urgente di cibo e medicinali».
Facciamo un passo indietro, ricordando le cause del conflitto: i sauditi sono stati chiamati dal presidente Mansour Hadi quando gli Houthi del nord, i ribelli sciiti della corrente zaidita, si sono mossi dalla regione settentrionale di Saada per scendere sulla capitale Sana’a.
Questo succedeva nel settembre del 2014. All’inizio del 2015 gli Houthi prendevano il potere nella capitale Sana’a e, messo alle strette, il presidente Mansour Hadi chiedeva aiuto ai sauditi che, da parte loro, non potevano tollerare un governo sciita nel vicino Yemen.
Secondo gli osservatori internazionali, in questi tre anni un terzo degli obiettivi colpiti dai sauditi e dai loro alleati sono civili: scuole, ospedali, moschee, mercati e quartieri residenziali. Per Laura Silvia Battaglia, autrice della graphic novel La sposa yemenita per le edizioni Becco Giallo, «prendere di mira i civili fa parte di una strategia militare messa in atto anche in altri contesti di guerra. Come gli americani in Iraq e in Afghanistan, Israele su Gaza, anche i sauditi violano le leggi internazionali: i civili sono vittime designate».
I rischi sono altissimi: «Il paese è in macerie, tre generazioni di yemeniti non hanno futuro e potrebbero dare vita ad azioni settarie come in Iraq». Battaglia è d’accordo con Lembo: «In questa drammatica situazione c’è la complicità dell’Occidente, il silenzio è in parte dovuto al fatto che sono in molti a vendere armi ai sauditi e ai loro alleati».
In questi tre anni i sauditi e i loro alleati hanno distrutto anche i siti archeologici e i palazzi architettonici dell’antica città di Sana’a, per l’Unesco patrimonio dell’umanità. Per il direttore generale dell’Unesco, Irina Bokova, si tratta di «pulizia culturale, atti volontari di distruzione di un passato storico culturale, islamico e preislamico, non in linea con l’ideologia saudita».
Consulente dell’Istituto Veneto per i Beni Culturali che ha dovuto interrompere le attività a causa della guerra, Cristina Muradore ricorda i siti più colpiti: la diga di Marib, vari siti scavati dalla missione archeologica italiana tra cui l’antica città di Baraqish del VI secolo avanti Cristo nella regione semidesertica di al-Jawf e altri templi preislamici, come quello di Awam.
Purtroppo, anche luoghi patrimonio dell’umanità come le città di Sana’a e di Shibam Hadramaut sono stati bombardati ripetutamente e per questo declassati a patrimonio in pericolo come lo sono tutti i centri storici dello Yemen, inclusi la città vecchia di Saada e tanti villaggi minori.
FONTE: Farian Sabahi, IL MANIFESTO
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