L’asilo compie 50 anni. La favola di Rodari e i ritardi delle scuole materne
In un famoso libro intitolato «Mi ricordo», lo scrittore francese Georges Perec ha scritto che l’infanzia non è nostalgia e neanche paradiso perduto, ma il punto di partenza di coordinate che daranno un senso alle direttrici della vita. Se il futuro dell’individuo si illumina alla luce dell’infanzia, sarebbe giusto che gli adulti si impegnassero per la serenità dei propri figli. Non solo i genitori ma, per quel che può, anche la società. Un Paese diventa adulto quando garantisce un’infanzia armoniosa ai suoi piccoli cittadini e dunque quando può mettere loro a disposizione dei buoni asili, accoglienti e stimolanti, assumendosi così la responsabilità di rimediare alle diseguaglianze o al grigiore delle famiglie.
Nei suoi ricordi ci sarebbe stato l’asilo se Perec non fosse cresciuto in tempo di guerra: chi non porta con sé negli anni il profumo della merendina nel cestino preparato da mamma, i pianti al saluto del mattino, il colore del fiocchetto della compagna, l’odore dei pastelli, i dispetti del Pierino che ti fa cadere le costruzioni, il chiasso del refettorio, il riposino, la maestra nevrastenica, o il primo bulletto che ti ha strappato di mano il peluche.
Anche se la riforma Gentile nel 1923 ne riconosceva già (teoricamente) il ruolo preparatorio, finita la guerra, in Italia dovettero passare due decenni perché fossero istituite le scuole materne. Accadde nell’anno di grazia (di disgrazia per qualcuno) 1968, con la legge 444 promulgata esattamente il 18 marzo. Nel 1907 Maria Montessori aveva inaugurato la Casa dei Bimbi a Roma nel rione popolare di San Lorenzo, convinta che non è il maestro ad applicare la psicologia ma sono i bambini a rivelargli la loro. Senza arrivare a tanto, nell’immediato dopoguerra, sarebbero state soprattutto le istituzioni caritative e cattoliche a soccorrere sul piano educativo la popolazione infantile spesso stremata più dei genitori.
Senza dimenticare alcune iniziative laiche di piccoli e grandi difensori dell’infanzia. Come l’elvetica Margherita Zoebeli che nel 1946 riuscì ad avviare, dentro baracche prefabbricate in legno arrivate dalla Svizzera, un Centro educativo nella Rimini in macerie, con una scuola materna ante litteram. Gli «asili infantili», secondo la Zoebeli, non andavano pensati soltanto in funzione dell’assistenza familiare ma in un’ottica «attiva», cioè nella prospettiva culturale e educativa del bambino. Più tardi, in questa ottica, sarebbe arrivato un altro maestro, Loris Malaguzzi, promotore di scuole autogestite nei quartiere più poveri di Reggio Emilia, dove nel 1963, tra scetticismi e diffidenze, venne inaugurata la prima scuola comunale per bambini dai tre ai sei anni. Il piccolo edificio in legno andò presto a fuoco e fu sostituito da una costruzione in mattoni solida come la casa dell’ultimo dei tre porcellini.
Eravamo nel pieno del boom economico, dei movimenti di emancipazione delle donne, dell’emigrazione interna. Lo stesso Malaguzzi scriverà che a quei tempi bisognava malamente conciliare le attese dei bambini con quelle delle famiglie e con le competenze ancora immature dei maestri. Era l’alba della svolta. Mentre Alberto Magni dalla Rai predicava agli adulti che «Non è mai troppo tardi», altri maestri sostenevano che non è mai troppo presto.
In una «favola al telefono» Gianni Rodari immaginava che a Busto Arsizio per rimediare alla furia creativa (e distruttiva) dei bambini, che metteva in serio pericolo il bilancio della città, un ragioniere illuminato consigliasse al sindaco di costruire per loro un palazzo da rompere. E così «infanti dell’asilo, belli e graziosi nei loro grembiulini rosa e celesti, pestavano diligentemente i servizi da caffè riducendoli in polvere finissima, con la quale si incipriavano il viso». Era il 1962. Lo Stato italiano non aveva ancora istituito le scuole materne.
FONTE: Paolo Di Stefano, CORRIERE DELLA SERA
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