Politica industriale? Ancora un fantasma

Politica industriale? Ancora un fantasma

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Sviluppo Cercasi . Gli sgravi non aiutano le imprese a migliorarsi. E il ruolo del pubblico è ancora marginale

La legislatura si è aperta nel 2013 nel segno della recessione che dal 2008 ha ridotto del 25 per cento la nostra produzione industriale. Negli ultimi cinque anni si sono susseguite crisi aziendali molto gravi – Alitalia, Ilva – e un centinaio di vertenze su aziende in fallimento; i governi Letta, Renzi e Gentiloni hanno effettuato interventi frammentari, sostegno al reddito di chi perdeva il lavoro, senza una strategia d’insieme che pensasse a nuove produzioni.
C’è stata anche la trasformazione della Fca (l’ex Fiat) in azienda olandese e la vendita di diverse imprese importanti – come Italcementi, da ultimo Italo – a multinazionali straniere: anche su questo i tre governi della legislatura non sono intervenuti.
Tuttavia, cinque anni fa il solo termine «politica industriale» sarebbe stato impronunciabile dalla politica ufficiale; ora governi, imprese e finanza – a Bruxelles come a Roma – tornano a utilizzarlo. Il problema, naturalmente, è il tipo di politica industriale da adottare, con quali specifici obiettivi.
In Europa, nel 2014, la Commissione Europea ha promosso un piano di investimenti, il cosiddetto «piano Juncker», basato sulla creazione del Fondo europeo per gli investimenti strategici. Il piano ha finanziato nuovi investimenti per una cifra prevista di 315 miliardi di euro, partendo da 8 miliardi di fondi Ue e 5 miliardi dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei).
In Italia, è stato invece riproposto un modello di politiche “orizzontali” fondato essenzialmente su incentivi fiscali destinati a tutte le imprese, in modo da “non turbare” la concorrenza sul mercato: il programma «Industria 4.0», varato con la legge di bilancio 2017 e ora rinominato «Impresa 4.0», rappresenta la novità maggiore per la politica industriale.

LE AGEVOLAZIONI FISCALI sono andate a chi aumenta il capitale, compra macchinari, attrezzature e impianti, spende per ricerca e sviluppo, ottiene pagamenti su brevetti. A tutto ciò si accompagnano, dal 2015, gli incentivi per l’assunzione nelle imprese di personale a tempo indeterminato attraverso un taglio dell’Irap sul costo del lavoro.

MISURE DI QUESTO TIPO riducono la base imponibile a favore dei profitti (non sono disponibili dati precisi sui costi sostenuti dallo Stato e sui risultati economici ottenuti); inoltre, non spingono il sistema produttivo al cambiamento verso attività più efficienti, a maggior intensità tecnologica, con maggior dinamica dei mercati e coerenza con le esigenze della domanda pubblica. Infine, non individuano aree prioritarie per lo sviluppo del paese, né intervengono per ridurre le divergenze territoriali interne.
Il ristagno della produzione industriale e degli investimenti mostra i limiti di questi interventi; anche se ci sono alcuni segnali di ripresa della spesa delle imprese sostenuta da questi forti incentivi, il paese resta molto indietro nelle graduatorie europee per ricerca, tecnologia e investimenti.
NELLA LEGISLATURA APPENA conclusa è poi continuata la strategia di ridurre l’intervento pubblico, presentato come un «aiuto di Stato» che distorce la concorrenza sul mercato. In Italia, quest’intervento nel settore industriale e dei servizi è stato nel 2014 di un importo pari a poco più dello 0,3 per cento del pil.
In Italia tra il 2002 e il 2013 questa spesa è caduta del 72 per cento, mentre i paesi del nord Europa e la Francia hanno mantenuto livelli di spesa più elevati, concentrandoli sulla sostenibilità ambientale. Questi tagli hanno colpito in particolare il sud e le risorse dei fondi strutturali europei (ovvero lo strumento principale per la politica di coesione nell’Unione Europea), non hanno compensato la diminuzione delle risorse impiegate, né hanno creato nuove capacità produttive.

MA LA QUESTIONE CHIAVE per il rilancio di una buona politica industriale italiana è quella di Cassa depositi e prestiti. Negli ultimi anni, essa è intervenuta in diverse situazioni di crisi industriale e ha avuto un ruolo di banca di investimento con la creazione del Fondo strategico italiano, dotato di 5,1 miliardi, e del Fondo italiano di investimento, dotato di 1,1 miliardi, con l’obiettivo di sostenere le imprese nell’aumentare la loro dimensione e solidità finanziaria.
GLI INVESTIMENTI EFFETTUATI sono stati però privi di una strategia d’insieme, e la dimensione finanziaria è rimasta prevalente. È perciò urgente che Cassa depositi e prestiti diventi una vera banca pubblica d’investimento e che concentri le partecipazioni azionarie dello Stato con una strategia chiara di politica industriale, puntando a ricostruire le capacità produttive del paese in aree selezionate.
Rispetto ai molti limiti ed errori che hanno segnato la legislatura, una strategia di politica industriale lungimirante ed efficace dovrebbe articolarsi su tre assi prioritari per lo sviluppo del paese.

AMBIENTE, ENERGIA e sostenibilità. Il paradigma tecnologico futuro sarà centrato su beni e metodi di produzione ecosostenibili e a basso impatto, sullo sfruttamento delle rinnovabili, su sistemi di mobilità integrata, sulla tutela e manutenzione del territorio.
Conoscenza e Information e communication technologies. Le Ict possono offrire applicazioni capaci di guadagni di produttività, minori costi, abbassamento dei prezzi, sviluppo di nuovi prodotti e servizi, ampliando anche le potenzialità della cooperazione in rete (open source, copyleft, Wiki).
Salute, welfare, assistenza. Gli avanzamenti nella ricerca medica, nei settori dei farmaci e della strumentazione medica, nei sistemi di cura, prevenzione, assistenza devono diventare obiettivi centrali di politica industriale.
In questo quadro, le attuali agevolazioni alle imprese su aumento di capitale, acquisto di macchinari, spese di ricerca, formazione del personale, dovrebbero essere concentrate solo sulle attività economiche che si realizzano nei tre assi sopra elencati. Lo stesso vale per gli sgravi fiscali sulle assunzioni, che dovrebbero essere collegati a un impegno da parte delle imprese per la creazione di occupazione stabile e con salari adeguati. Gli incentivi nel Mezzogiorno dovrebbero essere il doppio di quelli nel resto del paese e si dovrebbe eliminare il «Patent Box» (il beneficio fiscale per i profitti da brevetti, marchi, licenze) che riduce la tassazione delle multinazionali.
Occorrono poi misure di politica industriale sul fronte delle tecnologie Ict, della sostenibilità ambientale, della salute e del welfare, a partire da una politica della domanda pubblica che tuteli la produzione nazionale e la creazione di nuove competenze, capacità produttive e sbocchi di mercato. E, come detto, si deve ridefinire il ruolo di Cassa Depositi e Prestiti come banca di investimento pubblica.

I TRE ASSI DI INTERVENTO prioritario per lo sviluppo del paese dovrebbero essere finanziati nel primo anno della nuova legislatura con un miliardo di euro ciascuno, puntando ad apportare correttivi all’attuale sistema degli incentivi rivolti alle imprese, a realizzare nuovi programmi di ricerca pubblica e piani di acquisizioni e commesse pubbliche capaci di creare domanda per le imprese, ad alimentare le risorse per nuovi investimenti produttivi da parte di Cassa Depositi e Prestiti.

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Gli aiuti all’automazione coprono le aziende già automatizzate

L’Italia ha ancora una buona base industriale, ma a bassa tecnologia e con pochissime grandi imprese. Eppure la principale strategia di politica industriale della legislatura è stata «Industria 4.0» – diventata a fine 2017 «Impresa 4.0» –, lanciata con la legge di Bilancio 2017 per diffondere nelle imprese nuove tecnologie come robotica e automazione, cloud computingbig data, sensori, stampanti 3D. È una strategia di estrema automazione che riduce il lavoro umano, anche nelle attività di servizio

Impresa 4.0 ha come obiettivi prioritari l’aumento degli investimenti delle imprese (circa 10 miliardi di euro nel 2017-2018), della loro spesa in ricerca e sviluppo (11,3 miliardi tra 2017 e 2020), l’avvio di nuove start-up. Gli strumenti messi in campo tivi sono essenzialmente gli sgravi fiscali già introdotti, che vengono accentuati per le attività e tecnologie legate appunto a Industria 4.0.

Gli sgravi fiscali per gli investimenti in macchinari salgono così dal 140% al 250% dell’ammortamento del costo delle macchine acquistate. Inoltre, un terzo dei fondi previsti per i benefici fiscali per l’acquisto di macchinari è destinato alle attività di Impresa 4.0. Una quota analoga riguarda le risorse per i Contratti di sviluppo nelle aree di crisi industriale.

Nel 2018 sono introdotti anche benefici fiscali per la formazione dei dipendenti coinvolti nelle tecnologie di Impresa 4.0 e risorse per la formazione tecnica superiore. Si possono stimare in circa 2 miliardi le risorse che potrebbero finanziare queste misure tra 2017 e 2020. Accanto a queste ci sono gli investimenti (3,5 miliardi tra il 2017 e il 2020) per le infrastrutture digitali e la rete a banda larga. Risorse di tali entità vengono distribuite con gli automatismi delle detrazioni fiscali.

Se da un lato Impresa 4.0 porta l’attenzione sull’arretratezza tecnologica dell’industria italiana, dall’altro le modalità e la direzione di questa strategia sono molto discutibili. Concentrare gli incentivi sulle tecnologie dell’automazione e del digitale, infatti, vuol dire avere in Italia un numero assai ristretto di imprese – spesso già avanzate e innovative – capaci di cogliere le opportunità offerte da queste misure.

Il problema italiano è invece la scarsa attività innovativa della parte centrale delle imprese, più piccole e meno avanzate, che non hanno strutture e competenze interne (si pensi al basso numero di laureati nella maggior parte delle imprese industriali) per avventurarsi sul terreno incerto del digitale e dell’automazione.

In questo contesto, Impresa 4.0 non è lo strumento più adatto per far crescere l’insieme dell’industria del paese. Ma, soprattutto, la direzione del cambiamento imposta da Impresa 4.0 è sbagliata: porta l’economia verso sistemi produttivi automatizzati, concentra il potere di controllo nelle grandi imprese – che spesso non sono nemmeno più italiane –, esclude il lavoro e ne trascura le competenze e il ruolo, con il rischio di aggravare le perdite di occupazione e alimentare le disuguaglianze di reddito.

FONTE: Lucrezia Fanti *, IL MANIFESTO

* Campagna Sbilanciamoci!



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