Oswaldo Zavala: «In Messico non esiste una narcodemocrazia. Esiste uno stato criminale»
Il Messico viene descritto da anni con il termine «narcodemocrazia». Una narrazione imposta dai governi Calderon e Nieto. Non tutto però si riesce a spiegare con quella chiave di lettura, e voci critiche dimostrano come i margini tra stato, economie legali e illegali siano inesistenti. Il caso della sparizione dei 43 di Ayotzinapa è stato emblematico. Tra chi osserva il paese senza fermarsi al punto di vista maggioritario è Oswaldo Zavala, messicano di Ciudad Juarez, docente di storia latinoamericana all’Università pubblica di New York e giornalista, che sta per pubblicare un libro intitolato I cartelli non esistono. L’abbiamo incontrato e intervistato.
È corretto quindi parlare di narcodemocrazia in Messico?
Parlare di narcodemocrazia in Messico o di narcostato è il risultato di una pratica discorsiva alimentata dello stato. L’imposizione del problema del narcotraffico in Messico, in realtà, è un qualcosa che stava nell’agenda ufficiale delle istituzioni da anni. Il fine è la definizione di uno spazio di criminalità a cui dare la colpa del presunto fallimento del paese. Non credo, quindi, esista davvero un narcostato messicano, credo esista uno stato criminale, uno stato cooptato da gruppi di gangster. Oggi la priorità del capitalismo è l’appropriazione di risorse naturali. Gli stati messicani dove c’è grande ricchezza di risorse naturali vedono una forte presenza di movimenti a difesa del territorio. Sono anche gli stessi stati che si dice siano governati dai narcos. In quei territori viene così imposto uno stato d’eccezione e inizia anche l’espropriazione delle risorse.
Esiste un rapporto tra il fenomeno del paramilitarismo e quello che oggi viene chiamato il narcotraffico?
Senza dubbi. Troppo spesso si confondono i termini paramilitari e narcotrafficanti. E troppo spesso si fa confusione tra gruppi. Ad esempio gli Zetas a volte si dice siano paramilitari a volte un cartello. La versione ufficiale è che gli Zetas controllino lo stato del Tamaulipas e che sovrastano il potere dello stato sfidando esercito e le forze dell’ordine. Difficile dire se è vero perché non abbiamo risorse e protezione necessaria per svolgere un’indagine. Così l’unica voce è quella dominante dello stato. Abbiamo però potuto studiare e verificare che i gruppi del Tamaulipas sono una cosa mentre quelli del Chihuahua un’altra. I gruppi di potere che operano nella sierra di Chiuhuahua non trafficano prioritariamente droga ma vengono chiamati comunque narcos.
Però il Chapo era il capo di un cartello, no?
La parola cartello è molto inefficace. È stata coniata negli Usa, un’invenzione del sistema statunitense in Colombia per definire i gruppi di potere di Pablo Escobar e poi quello di Cali. Un cartello è un’associazione di realtà che, in maniera orizzontale, manipolano i prezzi di un dato prodotto. È inspiegabile come possano essere chiamati «cartello» cinque contadini di Sinaloa o del Tamaulipas, senza avere le prove della loro capacità di modificare il prezzo della droga. Non chiamerei «cartello» quello di Sinaloa, meglio dire che è un gruppo di trafficanti. Sicuramente trafficano e muovono droga, dentro e fuori dal paese, ma abbiamo pochissime informazioni reali sul loro operato. Se ci basiamo su quel che diceva Forbes sulla presunta fortuna del Chapo e sulla presunta capacità di infiltrazione del cartello di Sinaloa in più di 50 paesi di tutto il mondo, non si spiega come tale organizzazione non abbia traduttori, non abbia esperti di economia globale e nemmeno come non abbia i soldi necessari per pagare un avvocato privato a New York. Da quel che ne so, il Chapo è seguito da difensori d’ufficio. Il presunto impero del cartello di Sinaloa pare inesistente. A Sinaloa c’era un’associazione di trafficanti che quando è servito è stata sacrificata dallo stato. Assumiamo come reali cose che non lo sono, tipo chiamare «cartelli» dei semplici trafficanti. Così la presunta guerra tra cartelli, per me, è un’idea manufatta dal governo.. L’idea che i loro presunti scontri per il controllo del territorio sia l’origine della violenze in Messico è molto pericolosa, non perché coincide con il discorso ufficiale, ma perché giustifica l’esercizio da parte dello stato della violenza con l’imposizione di stati d’eccezione.
Come con la «legge sulla sicurezza interna»?
Chiaro. La legge è simile ma più avanzata, alla legge di sicurezza nazionale statunitense del 1947. È la carta bianca per giustificare ogni sorta di repressione, nel nome della sicurezza, verso chiunque. Per me è il punto finale di un processo securitario iniziato nel 2006 e dove lo stato non esita a usare la violenza dell’esercito contro la popolazione. Questa è in verità la «guerra alla droga».
Come si spiega la violenza in Messico?
In molti modi. La prima cosa da capire è che la violenza non è il risultato del traffico di droga. I trafficanti non sono interessati alla violenza come stile di vita. Come qualunque altro tipo di economia informale, il traffico di droga, è un processo clandestino il cui scopo è la produzione di soldi. Se sei dentro il traffico di droga non puoi ritirarti, se ad un certo punto vuoi farlo vieni ammazzato. Ma è inspiegabile il perché dal 2008 esploderebbe la violenza territoriale di questi gruppi. Ciò che chiamano «cartelli» si formano in Messico dal 1975 e dalla loro nascita al 2008 non si registrano scontri per il controllo del mercato né violenze generalizzate sulla popolazione. Di colpo, però, secondo lo stato, iniziano a uccidere smisuratamente e contendersi le zone di traffico. Ciò che possiamo notare è che nelle aree dove dal 2008, nel nome della guerra alla droga, sono cresciuti militari e poliziotti decretando stato d’eccezione è incrementata la violenza. Detto in modo filosofico, la condizione d’incremento della violenza è l’apparizione dello stato di eccezione non dei trafficanti. Per dirla come un amico giornalista «la violenza è tanto grande quanto è grande la presenza di polizia».
FONTE: Andrea Cegna, IL MANIFESTO
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