Assolto Marco Cappato. In ballo la legittimità della libera scelta a lasciare la vita

Assolto Marco Cappato. In ballo la legittimità della libera scelta a lasciare la vita

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Il giudice di Milano assolve Marco Cappato per il reato di istigazione, e rinvia gli atti alla Corte costituzionale per quello di assistenza al suicidio. Una distinzione chiara ai penalisti, probabilmente ostica per i più.

Il codice penale non punisce il suicidio, anche solo tentato. Ed è abbastanza ovvio, anche solo considerando l’assurdità di consegnare un cadavere alle patrie galere. Punisce invece chi spinge altri al suicidio, o è in vario modo partecipe del porre termine alla vita.

Il punto focale è se esista o meno un diritto di morire, cioè di scegliere il come e il quando della cessazione della propria esistenza. Il legislatore penale del 1931 decide per il no, riconoscendo in generale la non punibilità di chi esercita un diritto (art. 51), ed invece sanzionando l’istigazione e l’assistenza al suicidio (art. 580). Laddove invece fosse riconosciuto un diritto di morire, non sarebbe certo suscettibile di censura chi aiutasse altri ad esercitare tale diritto. Vedremo in seguito le motivazioni del rinvio alla Corte costituzionale. Ma la questione al fondo non può che essere questa: esiste o no un diritto costituzionalmente protetto a scegliere il come e il quando della cessazione della propria esistenza? Parallelamente, può il legislatore porre limiti a tale scelta, e conseguentemente obbligare a vivere chi ha deciso diversamente?

Finora è mancata la risposta conclusiva. Non sono bastati casi eclatanti come Welby ed Englaro, né la serie ormai piuttosto lunga di viaggi in Svizzera.

Anche la recente legge sul testamento biologico (219/2017) non è priva di ambiguità, soprattutto nella figura del medico, che non è sempre chiamato alla mera esecuzione della volontà del paziente, ma in alcune ipotesi sembra configurarsi come soggetto titolare di valutazioni e decisioni proprie. Cosa che potrebbe riverberarsi sulla pienezza dell’autodeterminazione del paziente, specificamente nell’ipotesi di rifiuto di trattamenti salvavita.

L’art. 32 Cost. sancisce il diritto a rifiutare trattamenti sanitari, salvo gli obblighi di legge. Qui il legislatore è abilitato ai soli interventi volti alla tutela della salute pubblica, come nel caso dei vaccini (cfr. da ultimo, sent. 5/2018). Ma dispone anche che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Un “rispetto” cui si allinea l’art. 1 della Carta di Nizza (poi tradotto nella Costituzione europea) per cui «la dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata». La domanda quindi è: nel “rispetto” e nella “dignità” troviamo anche il riconoscimento di poter decidere autonomamente e consapevolmente di porre termine alla propria vita? O possiamo essere obbligati dal legislatore a vivere, pur non volendolo?

Non sembra dubbio che rispetto e dignità comprendano la scelta ultima ed essenziale sull’esistere. Dove sono quei valori se chi ne è titolare è costretto all’alba di ogni giorno ad avviarsi per un percorso che vorrebbe abbandonare?

Quali sarebbero i valori da bilanciare, tali da giustificare l’obbligo a proseguire? Esiste forse una dignità di vita che prescinde dalla dignità della vita di ciascuno? La risposta appare chiara, almeno per un legislatore che voglia definirsi laico. E non solo per chi è in condizioni terminali e vuole sottrarsi alla sofferenza. Ma anche per colui che, non trovandosi in quelle condizioni, ritiene senza se e senza ma di voler concludere la propria esperienza di vita. Anche per quest’ultimo varrebbe la domanda sul perché e a difesa di cosa impedire una libera scelta.

Certo, non ci sono risposte facili. Forse il giudice di Milano avrebbe potuto giungere all’assoluzione di Cappato per il reato di assistenza, anche per via di una interpretazione secundum constitutionem dell’art. 580 c.p. Non l’ha fatto, e vedremo cosa dirà la Corte. Ci auguriamo solo che non dia una risposta a metà, riconoscendo il diritto ma aprendo al tempo stesso a una troppo ampia discrezionalità legislativa. Così tutto rimarrebbe nelle mani delle pulsioni maggioritarie del momento.

Ci dica dunque una parola chiara, con coraggio, e ci aiuti a porre fine al turismo funerario, prova ultima e inaccettabile delle diseguaglianze. Totò si sbagliava. In questo paese rischiamo che nemmeno la morte sia una livella.

FONTE: Massimo Villone, IL MANIFESTO



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