Intervista a Luigi Ciotti. Della “non-emergenza” droghe si continua a morire
La questione droghe pare normalizzata, media e politica non se ne occupano. Eppure i numeri sono sempre drammatici: 8.441 morti in Europa nel 2015, 266 in Italia nel 2016. I consumi sono sempre alti e le sostanze di abuso si sono moltiplicate. Le carceri sono piene e i servizi terapeutici quasi vuoti. La riduzione del danno, il “quarto pilastro” indispensabile delle politiche sulle dipendenze, in Italia è letteralmente scomparsa, le strutture private di risorse. Da otto anni, irresponsabilmente e in contrasto con la stessa legge, il governo non convoca la Conferenza triennale che dovrebbe fare il punto e indirizzare le politiche sulle tossicodipendenze. Allo stesso modo, non si parla più di AIDS, che uccide di meno ma che continua a infettare senza che vi sia adeguata consapevolezza e informazione sui comportamenti a rischio. In entrambi i casi servirebbe investire sulla prevenzione, su percorsi educativi e di sostegno, dice qui don Luigi Ciotti, che oltre mezzo secolo fa ha fondato il Gruppo Abele, che tuttora presiede, una delle prime realtà a misurarsi, in termini di accoglienza e di proposta culturale e politica, su questi problemi.
Rapporto Diritti Globali: Il Gruppo Abele, da te fondato, ha avuto i suoi principali e originari fronti di impegno sulle questioni delle tossicodipendenze, ma anche del carcere e del disagio minorile, della prostituzione. Dopo mezzo secolo, i problemi che vivono molte persone, in particolare tra i giovani, sembrano essere gli stessi. Con una, fondamentale, differenza: oggi se ne parla molto di meno, media e politica sono assai più disattenti. È così?
Luigi Ciotti: Indubbiamente il fenomeno dell’uso di droghe in Italia – ma il discorso vale in generale – non è mai scomparso: si è magari modificato nelle modalità di assunzione e nel tipo di sostanza consumata, ma ha visto una sostanziale continuità. È divenuto, per fortuna, meno letale, dopo i picchi degli anni Ottanta e Novanta: dai 470 decessi del 1999 si è progressivamente scesi ai 280 del 2005, ai 154 del 2010 per arrivare ai 101 del 2015 e risalire ai 266 nel 2016. Ma se guardiamo ai dati europei, dove la tendenza alla crescita è più marcata, la drammaticità del problema è ancora maggiore: nel 2015 i morti sono stati 8.441, in aumento per il terzo anno di fila. Dunque si muore ancora, ma questo non fa più notizia. Le droghe non sono più un’emergenza, anche perché l’assunzione e pure lo spaccio sono divenuti meno visibili, meno sulla strada, meno direttamente connessi a fenomeni di microcriminalità, quanto meno nella percezione comune. La questione droghe, insomma, pare normalizzata. Eppure, continua a essere fortemente penalizzata. Basti guardare agli ultimi dati: nel 2016 sono tornate ad aumentare le persone segnalate alle prefetture per consumo di sostanze illecite: da 27.718 a 32.687, peraltro con un’impennata delle segnalazioni dei minori (+237,15%), il che dovrebbe preoccupare e interrogare. Pensiamo che, dal 1990, anno in cui entrò in vigore la legge Iervolino-Vassalli, sono state ben 1.164.158 le persone segnalate per possesso di sostanze stupefacenti a uso personale, di cui il 72,57% per derivati della cannabis.
Sempre grave e ipertrofica la detenzione legata alle droghe: al 31 dicembre 2016 erano ristrette in carcere 17.733 persone per violazione dell’articolo 73, che punisce la produzione, il traffico e la detenzione di droghe illecite, a cui vanno aggiunte le 5.868 detenute per il 74, vale a dire l’associazione finalizzata al traffico illecito. Quasi la metà dei detenuti è in carcere per la violazione della legge sulle droghe. Numeri che dovrebbero fare riflettere, che dicono di tribunali intasati e di celle sovraffollate. Tanto più che a essere colpiti sono per lo più consumatori e piccoli spacciatori, non grandi trafficanti. Dei 54.653 detenuti, 14.157 sono tossicodipendenti, il 25,9% del totale!
Intanto il grande business delle mafie italiane e internazionali continua quasi indisturbato, finendo per inquinare anche l’economia legale: pensiamo che, secondo una stima peraltro prudente, nel 2013 il valore del mercato al dettaglio delle sostanze illecite nell’Unione Europea ammontava a 24 miliardi di euro. Questa sì una vera emergenza, che necessita di strategie complessive a livello sovranazionale, e non solo sul piano repressivo. Così come occorre investire sul piano educativo e culturale con le scuole, con le famiglie, nei luoghi di aggregazione giovanile. E ridando il dovuto sostegno alle reti di comunità e di associazioni da troppo tempo dimenticate.
RDG: Un altro fronte storico di intervento del Gruppo Abele, e tuo personale poiché sei stato il primo presidente della LILA, è stato quello dell’AIDS, esplosa nei primi anni Ottanta. Un altro problema oggi nascosto e rimosso?
LC: Come sulle dipendenze, anche sull’AIDS, colpevolmente, si sono da tempo spente le attenzioni sociali e istituzionali. Si è passati dagli allarmismi di trent’anni fa, spesso mal gestiti e tradotti in messaggi che hanno ghettizzato le persone sulla base dell’uso di droga o dell’inclinazione sessuale, al silenzio e al disinteresse di oggi. Certo la mortalità, grazie ai farmaci di ultima generazione, si è drasticamente ridotta. Ma con essa sembra essersi spenta anche la necessità di un’informazione seria e scientifica sui comportamenti a rischio, sull’educazione sanitaria, su una prevenzione mirata ed efficace. Oggi sono prevalenti i contagi per via sessuale; tuttavia, occorre sapere che questi talvolta avvengono anche a causa di comportamenti irresponsabili influenzati dall’uso e abuso di droghe e alcool. Il che ci rimanda di nuovo alla dimensione educativa e a un’informazione che non sia sommaria e terroristica, ma seria e calibrata ai target, giovanili e non, ai quali si rivolge.
Consideriamo poi – richiamando anche quanto detto sopra – che il ritorno, sia pur ancora contenuto, dell’eroina per via endovenosa, imporrebbe di non indebolire i servizi di riduzione dei rischi e del danno che tanto hanno contribuito ad arginare l’epidemia di HIV, presidi di sanità a protezione non solo delle persone che assumono droghe, ma di tutta la popolazione. Invece vediamo che, nell’ultima Relazione annuale al Parlamento sulle tossicodipendenze del 2017, quella che dovrebbe essere considerata il “quarto pilastro” della politica sulle droghe, la riduzione del danno, è scomparsa. Così come occorre ricordare che la Conferenza triennale sulle droghe, prevista dalla legge, non viene più convocata da otto anni: una grave inadempienza per denunciare la quale le associazioni ipotizzano un ricorso all’autorità giudiziaria.
RDG: Ma la questione droghe ha cessato di essere una “emergenza” mediatica e oggetto di campagne securitarie anche perché è, appunto, divenuta fenomeno “normalizzato”, che non riguarda più solo o principalmente settori e figure sociali deboli e marginali?
LC: La dipendenza è il risultato di un intreccio di fattori diversi: fragilità della persona, effetti specifici della sostanza, contesto che ne determina o facilita l’uso. Oggi il consumo si concentra soprattutto su tre sostanze: alcool, tabacco e, come dicevamo, cannabis. Solo una minoranza di consumatori ne assume altre, e, di questa, solo una parte diventa dipendente e polidipendente.
Questa è la fotografia, che ci suggerisce come sia improprio, oggi più di ieri, leggere il fenomeno del consumo solo attraverso le categorie del disagio sociale e della vulnerabilità individuale. Può esserlo al limite nel caso dell’eroina, il cui abuso continua a nascere quasi sempre da storie difficili, biografie dissestate, episodi di sofferenza, di violenza, di abbandono, di povertà materiali, educative e culturali.
C’è, insomma, un’indubbia normalizzazione del consumo, un suo adeguamento al contesto, il che però ovviamente non giustifica il disinteressarsi delle persone e dei problemi che anche un consumo “socialmente compatibile” produce, tanto meno giustifica il ricorso esclusivo alla misura penale quando il consumo esce dai “ranghi” e, attraverso episodi di microcriminalità, provoca allarme sociale.
RDG: Dunque cosa occorre, o occorrerebbe, fare?
LC: Bisogna ridare centralità – e destinare risorse – alla prevenzione che, soprattutto in questi anni di crisi economica, è stata la vittima privilegiata dei tagli della spesa sanitaria e sociale. Alcuni servizi sono stati chiusi ed altri ridimensionati nelle loro attività. La scuola sappiamo che da tempo versa in condizioni difficili, tra precarietà dei docenti e strutture inadeguate, per non dire fatiscenti.
Di nuovo, è un problema anzitutto culturale, di consapevolezza e lungimiranza. La prevenzione non serve solo alle persone fragili e ai loro familiari ma a tutta la comunità: prevenzione significa corresponsabilità, sapere che il problema tuo è anche mio. Significa accoglienza, riconoscimento, impegno per il bene comune. In tutto questo la politica gioca un ruolo fondamentale, ma deve tornare a essere una politica capace di progetto, di visione, di investimento sul futuro; capace d’incontrare le persone non solo attraverso il filtro delle statistiche e delle logiche economiche.
Per tornare alla domanda iniziale, «persone, non problemi» era il perno della filosofia educativa e di accoglienza che ispirava e ispira da cinquantadue anni l’impegno del Gruppo Abele. Oggi, guardando a queste derive tecniciste e “contabili” verrebbe da correggere la formula in «persone, non bilanci». La politica deve dunque tornare a essere promozione di bene comune e l’economia equa amministrazione di quel bene. Altrimenti non abbiamo una società, ma una giungla, dove la legge è solo quella del più forte.
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Luigi Ciotti: è nato nel 1945 e, sin da giovanissimo, promuove un gruppo di impegno sociale che prende il nome di “Gruppo Abele”. Nel 1972 viene ordinato sacerdote e nel 1974 apre la prima comunità di accoglienza. Nel 1982 contribuisce alla costituzione del Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza. Nel 1986 si impegna per la fondazione della Lega Italiana per la Lotta all’AIDS (LILA). Nel 1995 fonda “Libera”, punto di riferimento oggi di oltre 160 realtà impegnate contro le mafie, la corruzione e per la giustizia sociale, con diramazioni in Europa e nel mondo. Giornalista pubblicista, dal 1988 scrive su “La Stampa”, “Avvenire”, “La Repubblica”, “il manifesto”, “Famiglia Cristiana”. Tra i suoi ultimi libri, La speranza non è in vendita (Giunti, 2011), Un prêtre contre la mafia (Bayard, 2015), L’eresia della verità (Edizioni Gruppo Abele, 2016)
Ha ricevuto diverse lauree honoris causa: il 1º luglio 1998 dall’Università di Bologna, in Scienze dell’Educazione; il 15 giugno 2006 dall’Università degli Studi di Foggia, in Giurisprudenza; il 4 dicembre 2014 dall’Università di Milano, in Scienze delle Comunicazioni.
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