Siria, la guerra che dopo sette anni ancora non finisce

Siria, la guerra che dopo sette anni ancora non finisce

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«Benvenuti nella Siria di Bashar Assad» accoglie il cartellone al passaggio dal Libano, una ventina di giorni fa è stato riaperto l’ultimo valico di frontiera tra i due Paesi che era stato sprangato dalla guerra.

«La Siria di Bashar Assad» non è una e una sola come la propaganda del regime vorrebbe far credere ai viaggiatori. È frastagliata nei colori del risentimento disegnati sulla mappa mostrata da Staffan de Mistura, l’inviato dell’Onu, macchie di una nazione che non c’è più, anche se al potere è rimasta la famiglia che la domina dal 1971.

A quasi sette anni dalle prime manifestazioni pacifiche per chiedere le riforme e protestare contro gli abusi, Assad ha dichiarato vittoria e vuole dimostrare di poter controllare tutto il territorio: sostenuto dai bombardamenti russi e dalle milizie sciite manovrate dagli iraniani, il dittatore sta cercando di conquistare le aree dove i ribelli e i gruppi fondamentalisti vicini ad Al Qaeda resistono ancora, le squadracce dello Stato Islamico sono state sgominate.

La strategia resta quella brutale applicata fin dall’inizio del conflitto, i morti sono oltre cinquecentomila: assedi medievali dove la fame diventa l’arma per piegare gli insorti e i civili che vivono con loro.

Come i quattrocentomila della Ghuta, periferia orientale di Damasco dove i palazzoni diventano campagna, accerchiati dal 2013, soffocati in una stretta che secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa «ha reso la vita impossibile».

Assad non ha intenzione di rinunciare al mandato che gli garantisce di restare presidente per altri tre anni (almeno). Significa governare una nazione svuotata di 7 milioni di abitanti, rifugiati che ancora non si fidano a tornare, esiliati che il regime per la maggior parte considera oppositori. Una Siria spopolata (il clan al potere fa parte della minoranza alauita, l’insurrezione è stata guidata dai sunniti) sarà più facile da sottomettere per i vecchi padroni. E i nuovi: russi e iraniani che già si dividono le ricompense per il sostegno al regime.

FONTE: Davide Frattini, CORRIERE DELLA SERA



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