Catalogna, crolla Rajoy, indipendentisti verso la maggioranza assoluta
Calma in piazza e attese ai seggi anche di 40 minuti Male la sinistra di En Comù-Podem
BARCELLONA. L’indipendentismo vince di nuovo, ma è una vittoria di Pirro.
Ciudadanos ottiene un successo straordinario e arriva primo, ma la sua leader Inés Arrimada non sarà mai presidente.
Crollo del Pp e della Cup, e ridimensionamento di Catalunya en comú – Podem.
La rimonta socialista è minima. La polarizzazione del panorama politico è massima.
I tre partiti indipendentisti, Junts per Catalunya (guidato dall’ex presidente catalano autoesiliato Carles Puigdemont), Esquerra Republicana de Catalunya (guidato dall’incarcerato Oriol Junqueras), e gli anticapitalisti della Cup ottengono 70 dei 135 seggi del parlamento catalano.
Nell’attuale parlamento questi tre partiti ne avevano 72 e sommavano il 47.7% dei voti. Ieri ne sommavano 47.5%, per un totale di quasi 2 milioni di voti.
Con un’affluenza record dell’82%, 5 punti sopra le elezioni del 2015, e la più alta di sempre (dalle prime elezioni catalane del 1980), e con una campagna elettorale marcata dal 155 e dall’assenza dei due principali leader indipendentisti, si può supporre che questo sia il tetto massimo a cui può aspirare il blocco indipendentista.
Di fatto, sono i 2 milioni di voti a favore dell’indipendenza dei due referendum (l’1 ottobre e in quello del 2014), e i quasi 2 milioni di voti complessivi dei tre partiti nel 2015.
Un mare di voti, ma che, nonostante tutto, non crescono.
La sorpresa è il testa a testa fra Junts per Catalunya e Esquerra: quasi con gli stessi voti, il 21.6% per JxC, 21.4% per Esquerra, il partito del president si impone sul suo rivale, in seggi (per le bizzarrie della legge elettorale): 34 contro i 32 di Esquerra.
Un risultato del tutto inaspettato fino a poche settimane fa.
Nelle ultime elezioni i due partiti si erano presentati assieme, con il nome di Junts pel Sí, ottenendo il 39.5% dei voti e 62 seggi. Separati, dunque, ne hanno guadagnati ben 4.
La scommessa di Puigdemont di giocare tutta la campagna sull’idea di essere il presidente legittimo che voleva tornare al palazzo della Generalitat ha regalato alla destra indipendentista un risultato molto superiore alle loro stesse aspettative.
Di fatto, ha confermato l’egemonia degli eredi del partito di Convergència nel pianeta indipendentista.
Un’egemonia politica che Convergència ha mantenuto quasi sempre in Catalogna, nonostante gli scandali di corruzione in cui era immerso (e che ormai sono stati dimenticati quasi del tutto).
Esquerra è il terzo partito e molto probabilmente dovrà accettare un Puigdemont II: il tentativo di conquistare un’autonomia politica dai soci di governo e di invertire i rapporti di forza nella coalizione secessionista si è rivelato un passo falso.
Crollano invece gli anticapitalisti della Cup; passano da 10 seggi a 5, dall’8% abbondante al 4.5%: sono i principali sconfitti del blocco indipendentista.
Ma il cui voto sarà di nuovo, come nella scorsa legislatura, fondamentale per un nuovo governo indipendentista: la maggioranza è 68, da soli JxC e Esquerra ne hanno 66.
Ciudadanos ha ottenuto più del 25% dei voti, e ben 37 seggi. Nell’ultima legislatura ne avevano 25 con il 18% dei voti: è il partito che è cresciuto di più in queste elezioni e si afferma come il principale punto di riferimento dell’anti indipendentismo.
Il risultato rafforza moltissimo il partito anche a Madrid, Albert Rivera gongolava.
È la prima volta che in Catalogna vince un partito di tradizione non catalanista.
I socialisti hanno finalmente, per la prima volta dal 1999, iniziato a recuperare qualche voto dei molti lasciati negli anni: passano da 16 a 18 seggi, dal 12.7% al 14%. Ma ne recuperano molti molti meno di quelli che si aspettavano.
Anche il Pp batte un record: se già era l’ultimo partito catalano, con l’8.5% e 11 seggi, ieri è crollato strepitosamente: solo 3 seggi e 4% dei voti.
Una debacle senza precedenti. Dovrà condividere il gruppo misto con la Cup: sarà un bello spettacolo.
Catalunya en comú – podem tiene, ma viene schiacciato dal frontismo: passano da 11 a 8 seggi, e dal 9 al 7.5%.
Non riusciranno a essere l’ago della bilancia, a meno di non decidere di appoggiare Arrimadas come presidente, cosa che verosimilmente non accadrà.
L’idea di un tripartito di sinistra coi socialisti ed Esquerra scompare dall’orizzonte.
Il panorama è dunque una maggioranza di 70 seggi che probabilmente spingerà per la formazione di un governo che continuerà sulla linea politica del precedente: c’è la questione degli 8 deputati che sono o in carcere, o all’estero, ma il messaggio politico è chiaro.
I toni ieri di Puigdemont (da Bruxelles) e di Marta Rovira di Esquerra erano più dialoganti e Rajoy non si è espresso (anche se pende la spada di Damocle del 155).
Ma in sostanza si torna allo scenario del 2015: una maggioranza in seggi, ma senza l’appoggio della maggioranza dei catalani, che vorrebbero l’indipendenza della Catalogna.
Il 155 ha dunque rafforzato, a causa dell’affluenza record, la narrativa della quasi metà indipendentista catalana; ha dato più forza al presidente Puigdemont, che era uscito indebolito dallo scontro con Madrid e per la successiva fuga in Belgio; ha regalato a Ciudadanos, il principale rivale a destra del Pp, la maggiore vittoria di sempre, ha dato ossigeno ai socialisti e infine ha disintegrato il Pp catalano.
Tutto sommato, Mariano Rajoy – sembrava impossibile – è riuscito a peggiorare ancora di più la situazione, per sé e per la Catalogna.
FONTE: Luca Tancredi Barone, IL MANIFESTO
Related Articles
Pechino. La lunga marcia della censura
Nella capitale un residente su cinque è pagato dalle autorità per “controllare e reinventare la pubblica opinione”. Così i nudi di Michelangelo vengono coperti dai pixel di Stato e il New York Times preso di mira dagli hacker Sul web un’armata di 2 milioni di “spin doctor” è incaricata di diffondere “energia positiva online” a favore del governo.
In Irlanda del Nord si litiga sulla bandiera
Ieri la città di Belfast ha deciso di esporre la Union Jack solo in alcuni giorni della settimana, 15 poliziotti sono rimasti feriti negli scontri fuori dal municipio
Usa, Il paradosso repubblicano
Il paradosso che emerge dalle prime due primarie repubblicane è che negli Stati uniti il partito più in crisi non è quello democratico, come dovrebbe essere a causa della pesante sconfitta elettorale del 2010, della crisi economica, della debolezza del presidente Obama, dell’impulso mediatico del Tea Party, ma invece è proprio il partito repubblicano.