Il partito delle Farc debutta in Colombia, ma il processo di pace fa fatica

Il partito delle Farc debutta in Colombia, ma il processo di pace fa fatica

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Sicurezza, riforma rurale, «capitolo etnico»: in ritardo la realizzazione di tutti i punti dell’intesa. A rischio anche la Giurisdizione speciale per la pace. E la destra spera di rimettere tutto in gioco con le elezioni del 2018

Nessuno si attendeva che per costruire la pace in Colombia bastasse una firma, ma a quasi un anno dall’ok definitivo del Congresso alla nuova intesa raggiunta tra governo e Farc (dopo la bocciatura dell’accordo nel referendum del 2 ottobre 2016) le preoccupazioni di chi teme una paralisi del processo di pace si fanno ogni giorno più reali.

È ALLARME ROSSO, in particolare, per la mancanza di garanzie di sicurezza per i leader popolari, contadini e indigeni – oltre 120 quelli uccisi nel corso dell’anno per mano delle forze armate, dei paramilitari e di nuovi gruppi battezzati come «dissidenti delle Farc» -, come pure per i ritardi nell’esecuzione del programma di sostituzione volontaria delle piantagioni di coca con coltivazioni che soddisfino le necessità alimentari della popolazione. Solo le massicce proteste dei contadini, che hanno paralizzato per due settimane la regione orientale del Paese, hanno costretto il governo a impegnarsi in un negoziato che affronti il tema dei diritti umani e stabilisca un cronogramma rispetto alla sostituzione delle colture illecite.

MA I RITARDI nell’attuazione degli accordi riguardano praticamente tutti i punti dell’intesa, da quello della riforma rurale integrale a quello del «Capitolo etnico» relativo alle comunità indigene e afro, in difesa del quale i popoli indigeni hanno bloccato per giorni la Panamericana, fino a obbligare il governo, anche in questo caso, ad avviare le trattative con il Consiglio regionale indigeno del Cauca, sotto la supervisione dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani.

A RISCHIO è anche la Giurisdizione speciale per la pace (Jep), riconducibile a quel modello di giustizia restaurativa, già applicato con successo in Sudafrica, che pone l’accento sulla riabilitazione non solo della vittima – alla quale si garantiscono verità, giustizia e risarcimenti – ma anche del carnefice – a cui si offre l’occasione di riparare al danno commesso –, con l’obiettivo di risanare per questa via un Paese lacerato dalla guerra, dalle divisioni e dall’odio. Proprio per questo la Jep è diventata il nuovo cavallo di battaglia dell’estrema destra, che, se da un lato mira a ritardare quanto più possibile l’attuazione degli accordi, nella speranza che le elezioni del 27 maggio del 2018 possano rimettere tutto in gioco, dall’altro ha già annunciato l’avvio di una raccolta di firme per un referendum diretto a derogare, insieme alla creazione della Giurisdizione speciale per la pace, i punti relativi all’incorporazione degli accordi nella Costituzione e alla partecipazione politica delle Farc.

E mentre continuano le tecniche dilatorie della destra – in attesa della scadenza, il 30 novembre, della procedura accelerata per l’approvazione delle riforme attuative degli accordi di pace (dopo la quale si dovrà seguire l’iter ordinario, con ulteriore rallentamento determinato dalla campagna elettorale) – i ritardi nell’avvio dei nuovi strumenti giurisdizionali si ripercuotono gravemente sugli ex combattenti, i quali non solo vivono in una sorta di limbo giuridico, ma si trovano anche esposti a persecuzioni e assassinii (già 16 gli ex guerriglieri uccisi in diverse zone).

UN IMPORTANTE PASSO AVANTI ha compiuto invece il partito nato dalle Farc, la Forza alternativa rivoluzionaria della comunità, la quale, dopo il via libera del Consiglio nazionale elettorale, ha celebrato il suo ingresso ufficiale sulla scena politica colombiana annunciando le candidature per le elezioni del 2018, a cominciare da quella dello storico leader dell’organizzazione guerrigliera, Rodrigo Londoño “Timochenko”, alla presidenza della Repubblica.

UN PICCOLO ASSAGGIO DI FUTURO per le famiglie di ex combattenti decise a voltare pagina viene dal sud del Caquetá, dove circa 200 membri delle Farc hanno investito gli aiuti concessi dal governo per il processo di reincorporazione nella vita civile degli ex guerriglieri nella creazione di un piccolo villaggio socialista, in cui le risorse sono distribuite in parti uguali all’interno della comunità e si lavora collettivamente nei diversi progetti produttivi. Il villaggio – costituito da una sessantina di case, una panetteria, un’ebanisteria, un ristorante, un ambulatorio, una scuola, una biblioteca, oltre a spazi ricreativi e a campi di ananas, banani e yucca – è diventato subito un’attrazione turistica, accogliendo ogni fine settimana gruppi di persone interessate a conoscere da vicino il processo di reintegro nella società dell’ex guerriglia.

FONTE: Claudia Fanti, IL MANIFESTO



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