Le tasse eluse dai big del web valgono un terzo della manovra economica

Le tasse eluse dai big del web valgono un terzo della manovra economica

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Il malloppo che sottraggono al fisco italiano è ingente: la Commissione Bilancio della Camera lo valuta in 30-32 miliardi di base imponibile, che in termini di gettito significa per lo Stato 5-6 miliardi in meno ogni anno. Insomma, circa un terzo della manovra finanziaria per il 2018, che si aggirerà sui 12-15 miliardi. Se il mondo delle web company uscisse dal Far West fiscale, si potrebbe dunque fare a meno di un bel pezzo della legge di Bilancio del prossimo anno.

Ma come fanno i giganti del web, da Amazon a Facebook, ad eludere le tasse? La ricetta si compone di tre elementi: un certo disprezzo delle regole come se questi soggetti potessero collocarsi al di sopra degli Stati e del fisco; la mancanza di una legislazione italiana compiuta; l’assenza di un trattato internazionale (dovuta soprattutto alle resistenze Usa) cui l’azione del nostro ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, unita ad altri partner europei, sta cercando di far fronte.

In mezzo a questo caos le web company fanno agilmente lo slalom tra due paletti: il pagamento della tassa sui profitti (in Italia l’Ires) e di quella sulle transazioni (nello specifico l’Iva).

L’elusione della tassa sui profitti è risolta abbastanza agevolmente da tutte le società, al di là della specializzazione merceologica o di business. La chiave è la cosiddetta “stabile organizzazione”: i codici internazionali del fisco prevedono che una multinazionale debba pagare le tasse sui profitti in un paese dove fa affari ed opera se ha in quel paese una “stabile organizzazione”, cioè un certo numero di dipendenti, una organizzazione commerciale, degli uffici o linee di produzione. Altrimenti può continuarle a pagare nella propria sede legale e fiscale che, solitamente, è collocata in Irlanda, Olanda o in Lussemburgo dove le aliquote sono meno della metà che da noi. Così fanno società come Facebook, Twitter, Airbnb, Uber, Amazon, mentre Google, recentemente, dopo un patteggiamento con il fisco, si è autonomamente adeguata alla legge italiana. L’Agenzia delle entrate dovrebbe dimostrare che l’attività italiana di queste aziende è “stabile” ed “organizzata”, nonostante la mancanza di personale e uffici, ma la battaglia legale è spesso perdente perché in Italia queste società hanno un spesso solo un server, un portale e una segretaria. Per questo il codice europeo chiesto da Italia, Germania, Francia e Spagna e taglierebbe la questione alla radice: anche senza sede fisica, se c’è il business, le tasse dovranno essere pagate dove si opera.

Il surf più pericoloso avviene invece sull’Iva: mentre per le tasse sui profitti c’è una legislazione incerta, sull’Iva i margini sono minori. Tant’è che proprio le tasse sulle vendite di pubblicità e la mancata fatturazione hanno consentito alla Procura di Milano di avviare le indagini che hanno investito a vari livelli Google, Amazon e Facebook. Le web company infatti sono allergiche alle tasse sugli scambi: vendono prodotti diversi, Facebook la pubblicità, Amazon libri e beni di consumo, Airbnb servizi di affitto. Ma quando arriva un libro a casa basta verificare: la fattura e l’Iva italiane non ci sono, il loro posto è preso da un analogo documento lussemburghese. Naturalmente le società sostengono di stare nel lecito, ma spesso i beni acquistati partono dalle stesse aziende italiane produttrici, o dai magazzini sparsi nella Penisola, e viaggiano senza fattura.

Il Parlamento, anche grazie alla battaglia del presidente della Commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia, ha cercato di far pagare le tasse alle web company. Avvenne nel 2013 con un esperimento di web tax sul quale il governo Renzi fece subito retromarcia. Così in attesa di una legislazione internazionale sulla “stabile organizzazione” si cerca di far emergere la presenza in Italia del business con ogni mezzo: ad esempio da quest’anno Airbnb e booking.com sono state costrette ad esercitare il ruolo di sostituti d’imposta per conto dello Stato e riscuotere così le tasse dai proprietari degli appartamenti utilizzati per affitti brevi. Un modo per monitorare anche i profitti e il fatturato delle società di servizi immobiliari e turistici. E poi tassarli.

Fonte: ROBERTO PETRINI, LA REPUBBLICA



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