FERMO. La fontanella grigia, la fermata della corriera per Porto San Giorgio, il belvedere sui Monti Sibillini che tremolano nella distanza. Tutto come quel giorno. Però Chinyere non se la sente di scendere in strada e tornare qui. «Potrei incontrare quell’uomo e non voglio. Alla mia domanda, “perché?”, non ha mai risposto e non glielo chiederò più».
Quell’uomo si chiama Amedeo Mancini. È l’ultrà fascista della Fermana che il 5 luglio 2016, alle tre del pomeriggio, uccise con un pugno Emmanuel Chidi Namdi, il marito di Chinyere. Mancini l’aveva chiamata «scimmia africana», Emmanuel aveva reagito, l’ultrà l’aveva colpito e ammazzato. Adesso è libero dopo avere patteggiato una condanna a quattro anni. Prima i domiciliari e poi nemmeno quelli. Buona condotta, così ha deciso la giustizia italiana. C’era la provocazione. E adesso chissà cosa c’è, dentro questo vuoto. «Non lo odio. Vorrei solo che avesse il coraggio di guardarmi e dirmi perché, però adesso è tardi».
Lo studio dell’avvocata Letizia Astorri è in un antico palazzo nel cuore di Fermo, si sale uno scalone in marmo ed ecco Chinyere. L’ha accompagnata suor Filomena che ricorda la
suora giovane di Arpino, pare una bimba con gli occhi accesi. Invece quelli di Chinyere vagano senza pace nella stanza, sembrano farfalle che non sanno dove posarsi. Suor Filomena la aiuta con la traduzione, anche se l’inglese della venticinquenne nigeriana è lineare e pastoso, scolastico quanto basta per lasciarsi capire.
«Un anno dopo, faccio quello che Emmanuel mi chiedeva tutte le mattine quando mi diceva “Chini, studia!”. Lo faccio per lui. Ho deciso di riprendere le lezioni di medicina, poi seguo un corso di informatica e un altro di cucina. Voglio lavorare e rimanere in Italia, perché qui sono stata bene e ho trovato gente buona».
Parla così, senza odio, del luogo che ha ucciso il suo amore. Lei che era fuggita dalla Nigeria per colpa dei terroristi di Boko Haram. «Fecero saltare in aria una chiesa uccidendo la nostra bambina, i miei genitori e i miei suoceri: quella sera, con Emmanuel decidemmo di scappare». La fuga in Libia, l’incontro con un trafficante di uomini che malmena Chinyere e le fa perdere il figlio che ha in grembo, la drammatica traversata, resistere nonostante tutto, raggiungere finalmente l’Italia e sperare di nuovo in qualcosa. «Quando siamo arrivati qui, io e mio marito ci siamo detti: la sofferenza è finita».
Il resto è ferocia e destino, sotto forma dell’incontro con la persona sbagliata. Quel Mancini che si vantava di tirare le noccioline ai neri. «Emmanuel era analfabeta e non capiva una parola d’italiano, magari non l’avessi capita neppure io». Magari Chinyere non avesse compreso il senso di quello “scimmia africana”. «Emmanuel era più avanti nella salita, con un amico. Io mi ero fermata per bere alla fontanella ed è stato in quel momento che l’uomo mi ha insultata. Ho gridato, Emmanuel è tornato indietro, l’altro lo ha colpito in faccia».
Quando si sposarono in Italia, fu Chinyere a leggere la formula di rito anche per Emmanuel. Lei era le sue parole, lui la sua forza. «Diceva che ero come uno zainetto, per questo mi portava ovunque. Eravamo rifugiati, a volte ci intervistavano. C’è un video su Youtube dove Emmanuel si presenta e parla, io vado a rivederlo per sentire ancora la sua voce, anche se poi soffro tanto».
Cercare una strada e un senso oltre l’umiliazione e la morte, a dispetto di quella che qualcuno chiama giustizia, con un assassino a piede libero e una vedova costretta a vivere in un altro posto, non più a Fermo, non si può dire dove, Chinyere va protetta il più possibile. «Ora sto abbastanza bene ma non come prima, perché so che sarò per sempre sola. Ogni mattina mi sveglio, mi guardo attorno e non trovo Emmanuel. Eppure non ho mai odiato la persona che l’ha ucciso, so che la devo perdonare perché nella Bibbia ci sono soltanto parole di bontà. Le mie giornate sono semplici: studio, lavoro, prego per l’anima di Emmanuel e del suo assassino, e anche per la mia avvocata Titti che ha un lavoro così difficile. Quando arrivammo in Italia senza documenti, non potevamo dimostrare di essere sposati, e don Vinicio Albanesi ci legò con una promessa di matrimonio. Indossavo lo stesso vestito che ho messo al funerale, quando ho chiesto a Dio di morire anch’io, però adesso non voglio più, adesso devo vivere per Emmanuel».
Dietro la finestra c’è un disordinato disegno di rondini, uno zigzag impazzito. Fa caldissimo. Chinyere s’interrompe per piangere un poco. «Forse era questa la volontà di Dio. La notte in cui Emmanuel è rimasto in coma non ho dormito fino a mattina, poi sono crollata e lui mi è apparso in sogno, ho visto che stava andando via». Chinyere ricorda anche il giorno dal giudice, quando provò a parlare con Amedeo Mancini. «Era agitato, tremava tutto, saltellava sulla sedia. E io pensavo a come reagisce una persona che ha ucciso un altro uomo, a com’è ridotta. Guarda in che stato è, mi dicevo, però lui non mi guardava, forse non gli importava niente. Mi sarebbe bastato un saluto, gli avrei chiesto perché lo hai fatto».
Per quasi un anno Chinyere è andata a trovare Emmanuel al cimitero di Capodarco, ma questo non le bastava. «Il 4 luglio l’ho riportato in Nigeria, perché per la tradizione igbo l’anima di chi muore di morte violenta può riposare solo a casa, e dopo un certo rito. Nella bara mettiamo una scopa, insieme a un coltello per proteggere il defunto. Il padre di Emmanuel mi strappò questa promessa: se mio figlio muore lontano, poi riportalo qui».
Un anno dopo, il dolore ha trovato forse la sua strada. «Emmanuel era un gentleman, trattava tutti bene, sorrideva sempre. Qui eravamo felici, anche per questo non scappo. Non ho paura del futuro. Sono una donna forte perché ho visto morire, ho perduto tutta la mia famiglia e un figlio non ancora nato, e della mia bimba non ho neanche più un pezzetto. Però non odio nessuno». La suora giovane la abbraccia, l’avvocata Titti la accarezza, le rondini continuano le loro picchiate e nessuna traiettoria si perde. Quello che resta dopo l’amore, sembra dire Chinyere, è l’amore.
Fonte: MAURIZIO CROSETTI, LA REPUBBLICA