Istat. Vent’anni di “riforme” cambiano il significato di «precariato»

Istat. Vent’anni di “riforme” cambiano il significato di «precariato»

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Dal «pacchetto Treu» al Jobs Act l’occupazione intermittente è aumentata e il senso del precariato è cambiato profondamente

Il lavoro precario è più diffuso tra i giovani tra i 15 e i 34 anni. Un occupato su quattro svolge un lavoro a termine o una collaborazione. Le più precarie di tutte sono le donne e le madri: il 41,5% delle occupate in una fascia di età considerata tra le più «produttive». L’occupazione «atipica» riguarda tutti i giovani, e quindi anche i diplomati e i laureati, sin dal primo lavoro. E cresce con l’aumentare del titolo di studio: in termini percentuali: è al 21,2% degli occupati per chi ha concluso la scuola dell’obbligo e al 35,4% per chi ha una laurea. All’inizio, come al termine degli studi, il lavoro precario è una realtà e cresce man mano che si continua a studiare. Lo ha sostenuto ieri il presidente dell’Istat Giorgio Alleva in un’audizione della commissione Affari costituzionali alla Camera sulle proposte di legge che modificano l’articolo 38 della Costituzione per assicurare l’equità nei trattamenti previdenziali e assistenziali.

L’intervento di Alleva è interessante perché permette di spiegare che cos’è, oggi, la precarietà e, di rimando, qual è stato il ruolo delle varie riforme del lavoro che hanno decontrattualizzato, desalarizzato e trasformato il lavoro autonomo, cambiando anche il senso del concetto di «precariato». L’occupazione intermittente e a basso reddito è aumentata dal 1997, anno in cui il governo di «centrosinistra» guidato da Romano Prodi formalizzò questa condizione con il cosiddetto «pacchetto Treu». La quota di «lavoratori temporanei» è, oggi, già in partenza, più consistente tra i giovani rispetto a 20 anni fa. Durante la generazione successiva, dall’inizio della crisi (2008) fino all’altro ieri (2016) la quota dei dipendenti a termine e dei collaboratori è aumentata di 5,6 punti percentuali, passando dal 22,2% al 27,8%. Su questo aumento ha giocato senz’altro un ruolo la crisi economica, ma anche gli interventi sui contratti a termine volti a modificare profondamente l’indicazione delle ragioni giustificative del termine alla prestazione lavorativa condotti prima del governo Monti e poi da quelli Letta e Renzi.
L’ampliamento della base del precariato di massa, che oggi rischia di diventare una moltitudine di lavoratori ultra-occasionali occupati con «lavoretti» – i «gig-workers» del capitalismo digitale: il futuro del lavoro – produrrà conseguenze epocali sul sistema previdenziale. Il presidente dell’Istat è stato chiaro: «Il basso tasso di occupazione dei 25-34enni (60,3% nella media del 2016), costituisce una grande debolezza per il presente e il futuro di queste generazioni che rischiano di non avere una storia contributiva adeguata». E ancora: «Ciò si rifletterà su importi pensionistici proporzionalmente più bassi rispetto a carriere lavorative regolari, cioè con salari adeguati e continuità nel versamento dei contributi», spiega. Non solo, «lo scarso impiego di queste fasce di età indica una grave situazione di sottoutilizzo di un segmento di popolazione ad elevato impatto potenziale sullo sviluppo economico del Paese». Nel 2016 l’Istat ha avvertito un aumento del tempo indeterminato anche tra i più giovani. Effetto degli sgravi (18 miliardi, fino al 2018) che il governo Renzi ha erogato alle imprese.

Il dato è confermato anche dal XIX rapporto Almalaurea: tra il 2008 e il 2013 è intervenuta una contrazione (-16% per i triennali; -11% per i magistrali). Nell’ultimo triennio l’occupazione è aumentata di oltre 2 punti percentuali per i triennali e di 1 punto per i magistrali biennali. Quando oggi si parla di «tempo indeterminato» si parla del paradosso del Jobs Act che ha inventato un contratto «stabile» che permette al datore di licenziare il lavoratore in ogni momento. La «precarietà» è un dato strutturale che va oltre le generazioni. Non è naturale, ma è stato programmato.

FONTE: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO



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