Rapporto Onu. Guardia costiera libica infiltrata da schiavisti
La città di Sebha in Libia è sormontata da una antica rocca fortificata che al tramonto diventa color porpora per il riflesso della sabbia rossa del deserto. Un tempo era un centro carovaniero e un importante mercato di schiavi e ora sta tornando alle origini come nuovo hub dei trafficanti di esseri umani. Ieri mattina proprio a Sebha stava arrivando il convoglio blindato del ministro dell’Istruzione del governo di Tripoli, Otman Abdul Jalil, quando improvvisamente la sua scorta è sparita e la sua auto è stata attaccata da milizie «non identificate» – scrive il Libya Herald -, il ministro è stato preso in ostaggio e liberato solo per intercessione del Consiglio degli anziani.
Sebha è al centro del recente rapporto delle Nazioni Unite sulle rotte dei migranti africani e le organizzazioni dedite al contrabbando in Libia, un lungo panel non molto lusinghiero per Guardia costiera libica, la stessa a cui il ministro dell’Interno italiano Marco Minniti vorrebbe affidare sempre maggiori responsabilità sul contenimento dei flussi migratori verso le coste italiane, limitando il ruolo delle ong nei salvataggi a mare.
Alcuni alti ufficiali di cui gli autori del rapporto fanno nome e cognome, e tentano di tracciare anche l’intricata mappa delle loro relazioni politiche e tribali, sono i capi riconosciuti dei trafficanti. È il caso di Abd al Rahman Milad, più noto come «al Bija», comandante della Guardia costiera del porto di Zawiya, città che insieme a Garabulli e Sabratha, Ghadames verso la frontiera dell’Algeria, Ajdabya e Bani Walid si stanno contendendo il ruolo di primo piano per le partenze dei gommoni anche secondo lo studio del think tank norvegese «Global initiative against transnational organized crime».
Zawiya tra queste località costiere è il centro più importante e lì domina la potente famiglia Koshlaf, che gestisce un centro di detenzione per migranti, uno dei più terribili, dentro una ex raffineria. Il comandante «al Bija», in ottimi rapporti con il clan Koshlaf, è stato coinvolto nell’affondamento di un barcone di migranti: ha ordinato di sparargli. Un altro ufficiale della Guardia costiera, Tareq al Hengari è accusato di aver proceduto a un’altra strage di migranti «nel tentativo di ostacolare il traffico» in realtà probabilmente perché in competizione con i Koshlaf. È sempre l’Onu a dichiarare che nei centri di dentenzione di Zawiya, Khums (Misurata) e Tripoli non sono rispettati i diritti umani e addirittura nei capannoni gestiti dal clan Koshlaf bambini e donne vengono «utilizzati come schiavi sessuali».
Nelle quasi trecento pagine del rapporto Onu si parla anche dei lucrosi traffici illegali di petrolio, di armi e di farmaci, dei mercenari sudanesi e chiadiani finanziati e armati di tutto punto dall’aprile 2016 per ultilizzarli in operazioni non ufficiali anti Isis, e delle tribù dei Tebu, in perenne rivalità con i Tuareg con i quali i Tebu però condividono una analoga condizione, spartendosi a colpi di fucile automatico il controllo sulle antiche rotte carovaniere del Fezzan e simili aspirazioni a un riconoscimento sociale e politico che nessuno dei due popoli nomadi ha ancora ottenuto.
In Libia oltre alle condizioni disumane in cui vengono trattati i migranti, ci sono pochi punti fermi nel panorama politico: i cambi di casacca molto repentini. I Tebu stessi – e al pari dei Tuareg – sono divisi e il generalissomo Khalifa Haftar da ieri tenta di aver la meglio sui Tebu che gli sono ostili nell’oasi di Kufra procedendo ai rastrellamenti per la consegna delle armi.
Ma neanche le sue truppe, della milizia chiamata Esercito nazionale libico (Lna), sono esenti da gravi crimini di guerra, documentate nel rapporto Onu anche con fotografie di esecuzioni sommarie. In più i clan Gheddafi e Warfalla, che adesso sembrano appoggiare Haftar, sono indicati anche dai ricercatori norvegesi come attori di primo piano nel contrabbando specialmente di petrolio e preziosi ma anche di migranti.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, che ha appena nominato il libanese Ghassan Salame nuovo inviato speciale per la Libia, a margine di una conferenza stampa per la Giornata del Rifugiato avrebbe scoraggiato l’Italia dal fare accordi con la Libia per intercettare i profughi dal momento che Tripoli non garantisce il rispetto dei diritti umani. Del resto sulla Guardia costiera libica pende un’inchiesta della procuratrice Fatou Bensouda presso la Corte internazionale dell’Aja.
FONTE: Rachele Gonnelli, IL MANIFESTO
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