Stati uniti. Muslim ban in vigore, pene più dure per i migranti illegali

Stati uniti. Muslim ban in vigore, pene più dure per i migranti illegali

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NEW YORK. Dopo mesi di battaglie legali, proteste e modifiche, il Muslim Ban, l’ordine esecutivo voluto da Trump che temporaneamente impedisce l’ingresso negli Usa ai cittadini provenienti da sei nazioni prevalentemente musulmane (Libia, Iran, Somalia, Sudan, Siria e Yemen), è entrato in vigore, anche se solo parzialmente.
Secondo il bando potranno entrare negli Stati uniti soltanto i cittadini provenienti da questi sei paesi che dimostreranno di avere un legame in America, una relazione con qualche organizzazione americana (ad esempio per ragioni di studio), un interesse lavorativo o un ricongiungimento famigliare. E qua arriva la maggior parte dei problemi.

Si parla di «famiglia stretta» ma bisognerebbe accordarsi sui termini, su cosa significhi il concetto che – a quanto pare – per Trump comprende genitori, figli, suoceri, fratelli, cognati, coniugi, ma esclude fidanzati, nonni, nipoti, zii e cugini di persone che vivono attualmente negli Stati uniti.

Non sono mancate le reazioni: oltre alle manifestazioni che si sono svolte nelle principali piazze degli Stati uniti, lo Stato delle Hawaii ha chiesto ad una corte federale di chiarire la portata della sentenza della Corte suprema sull’ordine esecutivo del presidente.

Il motivo d’urgenza depositato al tribunale federale di Honolulu è, in effetti, una sfida alla definizione dell’amministrazione Trump di chi può essere escluso dagli Usa: cosa costituisce un rapporto familiare stretto?

In una dichiarazione, il procuratore generale delle Hawaii, Douglas Chin, ha detto che il suo Stato chiede chiarimenti sul perché il governo federale non possa applicare i controversi divieti contro «tutti quei familiari che non vengono reputati abbastanza vicini».

Il fatto è che specialmente i nonni spesso sono la vera linea di continuità familiare nelle relazioni tra migranti: nipoti che vengono mandati a raggiungerli, nonni che rimasti soli si ricongiungono con i nipoti americani. Ma questa raffinatezza di valutazione che include conoscenza ed empatia non è parte dell’amministrazione Trump.

L’idea di un figlio che viene mandato a vivere dagli zii per sottrarlo ad una vita difficile là dove è nato non entra nell’orizzonte cognitivo di chi ha prodotto questo decreto chiaramente discriminatorio, xenofobo, islamofobo.

E la mobilitazione, questa volta, non è stata emotiva ma pragmatica: sin dal pomeriggio nei principali aeroporti internazionali americani si sono ricostituiti gli sportelli legali volontari organizzati dalle associazioni per la difesa dei diritti civili. Militanti o anche semplici cittadini si sono presentati per offrire assistenza a chi è in difficoltà, riportando di nuovo la fotografia di un tessuto sociale migliore dei loro rappresentanti.

L’ordine esecutivo di Trump resterà in vigore in questa forma almeno fino ad ottobre, quando la Corte esprimerà il proprio parere sulla costituzionalità del decreto cercando di capire se è in contrasto col Primo Emendamento che garantisce la libertà religiosa.

Come se non bastasse c’è stato un nuovo giro di vite contro gli immigrati e le città che li proteggono, con l’approvazione di due nuove leggi da parte della Camera: la prima sospende i finanziamenti federali alle «città santuario», ossia le circa 300 città americane – da San Francisco a New York – che offrono protezione e assistenza ai loro cittadini illegali; la seconda aumenta le pene per gli stranieri espulsi che ritornano negli Stati uniti.

Trump ha invitato il Senato a fare altrettanto, cosa più difficile: per far passare a legge è necessario l’appoggio dei democratici in modo da arrivare ai 60 voti necessari.

Il segretario della sicurezza nazionale, John F. Kelly, è venuto in aiuto lodando i disegni di legge, ma ad aprile un giudice della corte di San Francisco aveva già bloccato temporaneamente l’ordine esecutivo emesso da Trump che avrebbe congelato miliardi di dollari di fondi federali destinati alle città santuario.

E il mese scorso il ministro della Giustizia Jeff Sessions aveva ridimensionato l’ordine, riducendo i parametri per definire le città santuario e la somma dei fondi federali che le città potrebbero perdere per non aver condiviso informazioni sullo status di immigrazione dei propri cittadini con le autorità federali.

FONTE: Marina Catucci, IL MANIFESTO



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