Senza rifugio. Climate change e il diritto all’asilo: popoli in fuga

Senza rifugio. Climate change e il diritto all’asilo: popoli in fuga

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Oggi è la giornata mondiale dei rifugiati, istituita dall’Onu nel 2000 insieme alla giornata dei migranti (il 18 dicembre). Migranti e rifugiati, il tutto e un insieme particolare. Refugees si diventa se si è palestinesi o se e quando una richiesta d’asilo viene accolta una volta raggiunta la frontiera del proprio Stato. In teoria la richiesta deve essere accolta se si è in fuga da guerra civile o persecuzioni (causa: la propria nazionalità, opinione politica, religione, appartenenza a un determinato gruppo sociale, come gli omosessuali, discendenza). Finché non viene accolta la domanda, si resta richiedenti asilo.

A fine 2016 vi erano 5,3 milioni di refugees palestinesi sotto il mandato Unwra (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East), 17,2 milioni di refugees sotto il mandato dell’apposita agenzia Onu Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees), 2,8 milioni di richiedenti asilo. Altra cosa sono gli internally displaced people, coloro che sono profughi all’interno del proprio Stato, anche per ragioni ambientali e climatiche (a seguito di disastri «naturali»). A fine 2015 erano 40,3 milioni. Tutti i 65,6 milioni sono comunque «migranti forzati», i quali hanno visto non rispettato (da comportamenti umani più o meno consapevoli) il diritto di restare dove sono nati e cresciuti. Dati molto simili al 2015, è sempre la crisi siriana la situazione più drammatica.

Vi sono altri migranti forzati non contemplati dalle statistiche? Purtroppo sì: profughi ambientali e climatici arrivati oltre il confine del proprio Stato (spesso per disastri più lenti e meno repentini, come l’innalzamento del mare e la desertificazione), vittime di disastri più piccoli non presi in considerazione dall’organizzazione che contabilizza le vittime e i senzacasa, perseguitati che non chiedono asilo per le più svariate ragioni, migranti forzati «clandestini» (vittime di traffico di corpi e organi, di prostituzione, di schiavitù), quanti sono drammaticamente morti durante la persecuzione prima di arrivare al confine o di poter chiedere asilo lungo il transito (ad esempio nel Sahara o nel Mediterraneo), nei campi profughi.

Fare domanda, vederla accolta o respinta, diventare refugee sono passaggi di un iter ufficiale di persone in carne e ossa, con nome e cognome, nazionalità d’origine e Stato in cui vivono con uno status che resta tale per decenni. Tuttavia, non sono gli unici rifugiati, gli unici profughi internazionali. Chi ha provato a contare gli «altri» con un taglio scientifico ha messo insieme numeri che ogni anno da oltre un decennio sono superiori ai numeri dei refugees «politici». Se qualcuno di loro chiede asilo deve farlo in base a emergenze previste dalle Costituzioni nazionali del paese in cui fanno domanda (purtroppo l’Italia non ha mai approvato la legge prevista dall’articolo 10 della nostra Costituzione).

Per almeno alcuni di loro sarebbe proprio ora di prevedere anche un riconoscimento internazionale, assegnare loro uno status specifico, diverso da quello Unhcr, regolarizzato attraverso un accordo multilaterale o europeo. Mi riferisco, in particolare, ai rifugiati climatici, coloro costretti alla fuga dalla loro residenza a causa di alcuni certificati effetti dei cambiamenti climatici antropici globali (innalzamento del mare, aumento di frequenza e intensità degli eventi meteorologici estremi, stress idrico in aree già secche e aride).

Il loro riconoscimento è suggerito anche dall’Enciclica papale e appare ormai un’urgenza ineludibile: le loro fughe passate, presenti e future sono connesse a scelte di produzione e consumo avvenute spesso in tutt’altra parte del mondo e alla conseguente eccessiva emissione in atmosfera di gas serra. Siamo responsabili noi della loro fuga e sarebbe decisamente il caso fossimo anche noi corresponsabili affinché la fuga non significhi morte o schiavitù.

Il dato meno commentato quando escono i rapporti Unhcr riguarda il perdurare negli anni della condizione di vita (mortificante) in un «rifugio». Dobbiamo sapere che i palestinesi di oggi sono figli di figli di figli di rifugiati, non hanno mai smesso quello status forzato da 70 anni, restano tali da generazioni e generazioni.

Gli altri refugees, in parte restano richiedenti per vari anni, nella restante larga parte lo sono da oltre 5 anni. L’Unhcr ha calcolato che 6,7 milioni sono inseriti in 32 gruppi di lungo periodo, ogni gruppo di almeno 25.000 della stessa nazionalità d’origine in esilio da almeno 5 anni nello stesso paese, un numero in crescita (protracted displacement situation). Per 11 gruppi si parla di più di 30 anni d’esilio, per 12 di più di 20 e (ancora) meno di 30 anni, per 9 di più di 10 e (ancora) meno di 20. E si devono aggiungere altri milioni di refugees di lungo corso se i gruppi sono più piccoli di 25.000 unità, se si considerano gli spostamenti della sede dell’esilio o altre variabili fuori dalla statistica. Dunque, molto oltre la metà dei refugees è tale da oltre 10 anni.

FONTE: Valerio Calzolaio, IL MANIFESTO



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