Siria, Iraq e Yemen. Il viaggio di Trump e le guerre a bassa intensità
Il viaggio di Trump in Medio Oriente ha dei riflessi immediati sui conflitti in corso nella regione. Conflitti semi-dimenticati ma che continuano a mangiare vite e società. Il massivo quantitativo di armi che il presidente Usa ha appena venduto a Riyadh non porterà certo quella pace che il tycoon ha celebrato domenica.
Accenderà le guerre che da anni spaccano la regione e che si stanno cristallizzando in un destabilizzante status quo: la frammentazione de facto delle entità statuali mediorientali.
La Siria, in primis, cuore del mondo arabo: l’agognata divisione interna è realtà. Sono almeno sette le enclavi identificabili: i territori controllati dal governo di Damasco, fascia che da Aleppo scende verso Hama e Homs (ieri l’esercito governativo ha annunciato la totale ripresa della città con l’evacuazione degli ultimi 700 miliziani presenti dal quartiere di Waer) e raggiunge la capitale; la kurda Rojava divisa in due, a ovest Afrin e a est Kobane, in mezzo l’esercito turco di stanza a Jarabulus; i territori centrali occupati dallo Stato Islamico, da Raqqa e Deir Ezzor al confine con l’Iraq; e tre aree in mano alle opposizioni islamiste, Idlib a nord ovest, Quneitra a sud ovest e il confine orientale con la Giordania.
A monte della frammentazione sta sicuramente l’incapacità di una forza di prevalere sulle altre: dopo la sconfitta subita ad Aleppo, si immaginava un’implosione delle opposizioni che non è arrivata nonostante le faide interne e la chiusura dei miliziani in zone definite.
Ma sta anche la volontà sottaciuta delle potenze regionali e globali di congelare il conflitto, farne una guerra a bassa intensità che eviti la soluzione politica (in tal senso le zone di de-escalation ne sono il temporaneo strumento) e garantisca la divisione territoriale.
E poi c’è Raqqa: le Forze Democratiche Siriane guidate dai kurdi – di nuovo attaccate nei giorni scorsi dall’esercito turco – continuano l’avanzata sostenute dalle armi e i marines Usa. Un’avanzata che ha permesso, da ottobre, di chiudere il cerchio sull’Isis: la “capitale” dello Stato Islamico è assediata da nord, ovest e est, con le vie di fuga tagliate dalle Sdf.
Ma l’Isis è comunque in grado di colpire: domenica sera un ordigno è esploso a Idlib, durante una riunione dei salafiti di Ahrar al-Sham, uccidendo 25 miliziani, tra cui alcuni leader.
Una capacità di muoversi identica a quella di cui gode in Iraq, colpito ogni settimana da attentati brutali a Baghdad come nelle città sciite a sud. Eppure la riconquista di Mosul è ad un passo: ieri l’esercito iracheno ha fatto sapere che il 97% di Mosul ovest è tornata in mano al governo e che poche sacche islamiste resistono in città vecchia, nei quartieri di Zanjili, Bab Sinjar e Shifa.
Ma la violenza che scuote il paese, l’infiltrazione jihadista e le divisioni politiche interne non fanno immaginare una pacificazione post-Mosul: la comunità sunnita, la più colpita dallo sfollamento, teme un nuovo isolamento politico, mentre i kurdi iracheni a Erbil progettano l’indipendenza e si radicano nella città contesa di Kirkuk, futuro luogo di conflitto con il governo centrale.
In tale contesto la presenza della Turchia (che ha lanciato le prime operazioni anti-milizie sciite e anti-Pkk tra Sinjar e Mosul) è volta alla creazione di una zona cuscinetto fuori dall’autorità di Baghdad, dunque certa fonte di conflitto.
E infine c’è lo Yemen dove la divisione è altrettanto concreta. Houthi a nord (contro i quali il presidente Hadi ha lanciato ieri una nuova controffensiva sulla capitale Sana’a), governo a sud. Proprio qui si fa forza lo storico movimento secessionista meridionale che nelle ultime settimane è tornato nelle piazze: ieri migliaia di persone ad Aden hanno chiesto la “liberazione” dal nord.
Ma le enclavi non sono solo due: ce n’è una terza invisibile, quella controllata da al Qaeda a est, radicata dalla guerra lanciata dai sauditi due anni fa e capace di trovare terreno fertile nelle tribù locali.
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