Corea del Sud. Scudo antimissile, proteste in piazza
La crisi coreana apre nuovi squarci: ieri non è stata la Corea del Nord al centro delle problematiche asiatiche, bensì la Corea del Sud.
Quando nel luglio 2016 era stato annunciato che il sistema antimissile americano Thaad sarebbe stato installato a Seongju, a sud est della capitale Seul, c’erano state proteste e perplessità. Le prime erano arrivate già allora dagli abitanti della zona, vicina a un’area che oggi è off limits ai cittadini (un terreno precedentemente dedicato ai campi da golf) preoccupati che il sistema di difesa potesse portare guai ambientali e di salute. Tutto questo alla luce di un accordo bilaterale tra Seul e Washington che ancora oggi manca della documentazione sull’impatto ambientale, richiesto dallo «Status of Forces Agreement» che regola la presenza delle forze armate Usa in Corea del Sud. Le perplessità derivavano dal fatto che Seongju dista 210 chilometri dal Seul: la potenza dello scudo anti missile sarebbe di 200 chilometri e quindi non pochi in Corea ritenevano che la mossa americana fosse più a difesa delle proprie basi che della popolazione sud coreana.
LE PROTESTE erano state partecipate, con i manifestanti a indossare le tradizionali bandane rosse, con gli slogan scritti anche con il sangue come impone la tradizione. La lotta era giustificata in nome degli antenati e per le generazione future, a dimostrare una vitalità della coscienza civile in Corea del Sud, spesso oscurata dalle vicende geopolitiche e dagli allarmismi provocati ora da Pyongyang, ora da Washington. A dimostrarlo sono state le mobilitazioni nell’ultimo anno con la partecipazione di una popolazione variegata, formata da anziani e giovani.
Ieri, in occasione della forzatura americana riguardo il Thaad, i cui primi test inizieranno tra pochi giorni e la cui completa sistemazione è prevista entro la fine dell’anno, sono ricominciate le proteste. Scontri con la polizia hanno provocato almeno 20 feriti, ma secondo quanto riportato dai media coreani, i cittadini non si fermeranno anche perché da tempo ormai oltre 150 organizzazioni della società civile hanno dato vita alla «National Action to Oppose Thaad Deployment in Korea», con attività sparse su tutto il territorio coreano. I militari sono stati accolti al grido di «No Thaad, no War» e «Hey Usa! Siete amici o forze d’occupazione?».
LA MOBILITAZIONE nasce dalle stesse motivazioni che aveva mosso le manifestazioni di luglio: ora quella zona si considera a rischio, nel mirino tanto della Corea del nord, quanto della Cina. Inoltre si temono gli effetti ambientali negativi su un territorio che fino a oggi era noto per la coltivazione del melone (il 60% della produzione nazionale arriva da lì) e per una discreta attività turistica.
Corea del Sud e Usa hanno firmato nel 2016 l’accordo sui «Terminal High Altitude Area Defense», più noti come Thaad, capaci di intercettare vettori nemici, dando una svolta ai negoziati in risposta ai test nucleari e missilistici di Pyongyang. Secondo la Yonhap, agenzia sudcoreana, sei rimorchi hanno trasportato i pezzi più importanti del potente impianto radar, compresi lanciatori mobili e altri elementi.
OLTRE ALLA PROTESTE, si è registrato anche uno screzio tutto interno alle forze politiche sud coreane. Il ministero della Difesa di Seul ha infatti confermato in una nota l’avvio delle operazioni spiegando che «la misura ha lo scopo di mettere in sicurezza la disponibilità delle parti più strategiche sul sito», mentre gli aspetti ambientali «saranno risolti nei tempi stabiliti». Il ministro ha anche contestato chi richiede un’approvazione parlamentare, spiegando che si tratta di un accordo bilaterale e non di un trattato. Ma la voce che più ha contestato la scelta statunitense è stata quella del favorito alle prossime elezioni presidenziali, rese necessarie dall’impeachment a causa degli scandali della presidente Park: Moon Jae-in ha sottolineato che questa «accelerazione» riguardo al Thaad non doveva avvenire prima delle elezioni del 9 maggio. Come ha poi specificato il suo portavoce, si tratta di una decisione che dovrebbe essere «discussa con il prossimo governo del paese».
Voci contrarie si sono levate – naturalmente – anche da Pechino la cui strategia diplomatica si sta muovendo fin dall’inizio per contenere tanto Kim Jong-un quanto la presenza militare americana nell’area. E il Thaad viene visto dalla dirigenza cinese come una minaccia principalmente rivolta al proprio paese, oltre che come un potenziale elemento di disturbo della attività diplomatica in corso con Kim Jong-un.
ANALOGHE RICHIESTE sono arrivate da Mosca, ma Pechino ha compiuto un passo in più. Se Xi Jinping ha tenuto fino ad oggi un comportamento moderato e costantemente alla ricerca del dialogo, ieri la Cina ha mostrato i muscoli, svelando la sua seconda portaerei, la prima interamente costruita in Cina (l’altra, la Liaoning, era stata rimodellata sulla base di una portaerei sovietica acquistata dall’Ucraina). Il vettore non ha ancora un nome, ad ora è stata chiamata Type 001A. La nuova unità è leggermente più grande della Liaoning e dovrebbe essere in grado di trasportare fino a 24 caccia Shenyang J-15, otto in più della Liaoning, e 17 elicotteri.
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