Nuova ondata di arresti in Turchia
Erdogan risponde agli europei: pronto a rinunciare all’adesione
Convitato di pietra del referendum turco del 16 aprile, l’Europa viene chiamata in causa dalle opposizioni, da un progetto di adesione vecchio ormai cinque decenni e da una posizione verso Ankara che definire ambigua ridurrebbe la portata delle effettive responsabilità.
Ieri il partito repubblicano Chp ha annunciato il ricorso alla Corte Europea per i diritti umani sull’esito del voto e la questione brogli, dopo essersi visto chiudere le porte sia dalla Commissione elettorale turca che dal Consiglio di Stato.
L’annuncio arriva in mezzo ad una due giorni concitata. Martedì il Consiglio d’Europa – organizzazione a cui aderiscono 47 paesi, esterna alle istituzioni della Ue e chiamata a vigilare su diritti umani e democrazia negli Stati membri – ha posto sotto osservazione la Turchia a seguito della campagna di epurazione lanciata dopo il fallito putsch del 15 luglio 2016.
Con 113 voti a favore e 45 contrari, il Consiglio ha avviato un processo di controllo del paese e chiesto ad Ankara di scarcerare subito giornalisti e parlamentari detenuti e assumere misure immediate per il ripristino di libertà di espressione e di stampa.
Secondo il sito di monitoraggio TurkeyPurge, al 18 aprile 2017 sono state licenziate 134mila persone (tra poliziotti, soldati, dipendenti pubblici, insegnanti, accademici, giornalisti); quasi 100mila sono state fermate e 49mila definitivamente arrestate; 2.099 università e scuole sono state chiuse, insieme a 149 agenzie stampa, emittenti tv e radio, giornali.
A nove mesi dal tentato golpe, i numeri continuano a salire: ieri oltre mille persone sospettate di avere legami con l’imam Gülen e il movimento Hizmet sono state arrestate in una serie di raid in tutto il paese che ha coinvolto 8.500 poliziotti.
I 1.120 arrestati – definiti dal ministro degli Interni Soylu «imam segreti» e tutti membri delle forze di polizia, che seguono ai 10.700 poliziotti e ai 7.400 soldati già in galera – sono solo un terzo dei 3.224 mandati d’arresto spiccati dal Mit, i servizi segreti, su richiesta della procura di Ankara che conduce l’inchiesta sulla presunta «struttura segreta» dentro la polizia.
Quella portata avanti in 81 province, di notte, è una delle operazioni più dure contro la rete di Gülen, alleato storico dei piani di islamizzazione di Erdogan (sia in casa che tra le comunità turche in Europa) e di controllo di istituzioni e network economici, poi diventato la bestia nera del presidente.
Contro di lui (come contro la comunità kurda) si è scatenata la campagna di epurazione, necessaria al governo a individuare, eliminare e punire chi esprime fedeltà – vere e presunte – a soggetti estranei alla leadership e potenzialmente distruttivi del modello di società omogenea che la riforma costituzionale appena votata intende imporre.
Restano i dubbi sugli effettivi benefici (per Erdogan) di epurazioni dai numeri impressionanti. I vertici di esercito e polizia sono decapitati, la magistratura e il mondo accademico “ripuliti” dei nemici e rimpinzati di fedelissimi, in apparenza il miglior modo per garantirsi un paese asservito.
Ma sul medio e lungo termine una tale violenza di Stato non potrà che avere effetti negativi per le istituzioni che Erdogan sta plasmando, internamente indebolite, a partire da quelle forze dell’ordine e forze armate ampiamente impiegate nella repressione interna, nella campagna contro la comunità kurda e in svariati fronti all’estero.
La maxi retata è anche una risposta all’Europa. Ovviamente decisa in precedenza, la tempistica – a poche ore dall’annuncio del Consiglio d’Europa – pare una reazione ufficiosa a cui fa seguito quella ufficiale di Erdogan. I parlamentari del suo partito, l’Akp, boicotteranno le sessioni del Consiglio fino a quando la procedura di controllo non sarà cancellata.
In un’intervista alla Reuters, il presidente ha poi detto di non aver intenzione di aspettare alle porte europee per sempre e di essere pronto a rinunciare all’adesione se persisterà un clima ostile e islamofobo: «Non c’è una singola cosa che non siamo pronti a fare, ma continuano a lasciarci alla porta».
Una porta che Ankara oggi rifiuta, più interessata a rivolgersi a oriente, a farsi leader di un progetto neo-ottomano regionale. Ricordando però che chiudendo con Bruxelles dovrà rinunciare anche a 600 milioni di euro girati ogni anno dalla Ue come fondi pre-adesione.
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