Festa del 25 aprile. La meglio Milano sfila in rosso, il Pd in blu
Buona la 72esima. Decine e decine di migliaia di persone. Una lunga teoria di spezzoni distanti e auto riferiti perché ormai la memoria condivisa non basta più. Anche se antifascista. Non un corteo solo, ma cinque, anche dieci. Cominciamo con lo scoop che si auto avvera: la contestazione alla brigata ebraica, con annessi amici di Israele. Alle 15,17 si accendono i riflettori, la notizia è sempre in piazza San Babila. Ci sono più giornalisti che contestatori con la bandiera della Palestina. Sono tre minuti di fischi e insulti – si dice «attimi di tensione» – poi tanti saluti e arrivederci alla prossima.
LA FESTA POPOLARE più bella, almeno a Milano, anche se a tratti sembra un pranzo di natale in una famiglia dove ci si saluta a malapena, quest’anno è cominciata al mattino. Al cimitero Maggiore, dove centinaia di cittadini hanno portato garofani rossi in omaggio ai partigiani milanesi. Nello stesso luogo, entrando alla spicciolata per il divieto di parata imposto dalla questura, si sono ritrovati trenta fascisti per commemorare i repubblichini.
Però la vera novità del corteo, inutile girarci attorno nella speranza che sia un abbaglio, è lo spettacolo da circo equestre messo in piedi dallo spezzone del Pd per dare senso a una presenza che si fa sempre più imbarazzante nella piazza storica della sinistra italiana. Si sono pittati tutti di blu sventolando le bandierine dell’Europa con indosso la t-shirt «patrioti europei», con servizio d’ordine in giallo canarino e colonna sonora in evidente stato confusionale: la Marsigliese, in un sussulto di macronizzazione (conosceranno il testo poco centrista?), l’Inno di Mameli (dovrebbero conoscerlo) e Heroes di Bowie (tenerezza).
L’esibizione di tanta enfasi europeista ai nastri di partenza ha agitato i militanti del centro sociale Cantiere, presenti in piazza con molti rifugiati («Nessuno è illegale»): il quasi contatto è stato disinnescato tra insulti e spinte, protestavano contro la legge Minniti-Orlando sull’immigrazione.
PROSEGUIAMO. Lo spezzone impossibile da esaurire in uno spazio fisico si presenta in disordine sparso lungo tutto il corteo. Il colore è rosso. Sono gli esponenti più (o meno) in vista della sinistra italiana, quasi ignorati, accompagnati dai militanti, tutti alla ricerca di almeno un percorso già segnato dove è impossibile sbagliare strada: qui si va dritti in Duomo con la certezza di un antifascismo a sfumature più o meno accese. Rilassante. C’è Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana), c’è Paolo Ferrero (Rifondazione comunista), ci sono Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, dietro lo striscione di Articolo 1-Mdp disperso in fondo al corteo, a centinaia di metri di distanza dal blu tristezza dei renzian-macroniani. Poi, naturalmente, Giuliano Pisapia, il pontiere che tutti abbraccia, l’unico che deve sottoporsi al rito del selfie con i bambini. Per restare ai partiti, ci sono anche le bandiere dei Cinque Stelle ma senza vip al seguito (ognuno li collochi spazialmente dove gli pare e dispiace).
Fin qui lo sguardo più politico-istituzionale, come sempre preceduto dai gonfaloni dei Comuni e dallo spezzone dei deportati, e attraversato da decine di associazioni che poi sono l’ossatura di un popolo che si ostina a cercare una via d’uscita a sinistra pur in assenza di una rappresentanza degna di questo nome – Arci, Acli, Emergency, Naga, comitati di quartiere, ambientalisti, migranti, realtà autogestite, fabbriche, associazioni di donne, i Sentinelli di Milano, i sindacati al gran completo…
CHIUDIAMO con due piacevoli sorprese. La prima è dove lo scarto con la parte più istituzionale della manifestazione si fa evidente. Laggiù in fondo. Qui l’età media si abbassa, i centri sociali ci sono ma non sono più gli unici titolari delle nuove generazioni che non ci stanno, nuove sigle si moltiplicano, nuove identità si solidificano, bandiere mai viste, circolano giornali di carta, c’è un’aria vintage di «comunismi» adolescenti declinati in forme inedite ancora da indagare. La seconda sorpresa invece è sul palco. Si chiama Beppe Sala, il sindaco. Celebra solennemente il 25 aprile e lo fa per lanciare un’altra data, il 20 maggio: «Milano senza muri», vuole fare come a Barcellona. «La Liberazione non è mai finita e oggi noi pensiamo che Liberazione è vincere la paura del nuovo, dell’incontro con chi viene da lontano. Tolleranza, apertura e condivisone sono valori fondanti di questa nuova stagione, valori che affrontiamo con forza contro la paura, l’odio e la separazione. L’accoglienza è un dovere prima di tutto umano che non prevede l’indulgenza verso i terroristi». Il tema è delicato, speriamo che il sindaco (e gli assessori del Pd) abbiano il coraggio di affrontarlo non limitandosi ad organizzare un’allegra sgambata all’insegna dell’accoglienza, senza mettere in discussione le politiche sull’immigrazione del governo di riferimento.
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