Gli USA mostrano i muscoli alla Corea del Nord

Gli USA mostrano i muscoli alla Corea del Nord

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PECHINO Il regime nordcoreano è abituato alle esibizioni di forza militare degli Stati Uniti. La portaerei Carl Vinson, che sta facendo rotta da Singapore verso la penisola con il suo gruppo d’attacco, ne era appena rientrata. Aveva partecipato in marzo a massicce manovre congiunte con i sudcoreani e in quell’occasione aveva preso a bordo i Navy Seal del Team 6, lo stesso impiegato nell’uccisione di Osama bin Laden. Per la storia, il cadavere del superterrorista saudita fu seppellito in mare proprio dal ponte della portaerei. Un segnale a Kim Jong-un quello delle manovre con i Navy Seal, e un messaggio ancor più chiaro quello di queste ore. Perché arriva dopo la pioggia di Tomahawk sulla base aerea siriana: tra le navi di scorta alla Carl Vinson, che imbarca 90 tra aerei d’attacco ed elicotteri, c’è anche un incrociatore lanciamissili. Comunque troppo poco per un’azione.

Pyongyang infatti risponde di non essere spaventata dall’arrivo della flottiglia americana «perché noi abbiamo poderosi muscoli militari con una forza nucleare al centro». È vero: nell’arsenale nordcoreano ci sono già almeno 20 ordigni nucleari e un nuovo test sotterraneo sembra imminente, tra il 15 e il 25 aprile si teme.

Ma oltre a quelli, Kim Jong-un comanda un deterrente di missili a corto e medio raggio, cannoni e lanciarazzi schierati sul 38° Parallelo. Circa 10 mila pezzi d’artiglieria e lanciarazzi a distanza di tiro dai 20 milioni di abitanti nell’area di Seul, distante 50 chilometri. Queste armi «convenzionali» sono protette in caverne e bunker. È stato calcolato che se ogni cannonata portasse 20 libbre di esplosivo ad alto potenziale (9 chili circa), con una cadenza di cinque colpi al minuto per pezzo, su Seul pioverebbero 1.000 tonnellate di esplosivo ogni 60 secondi. In un quarto d’ora si arriverebbe all’equivalente della bomba di Hiroshima (senza radiazioni, ma magari con sostanze chimiche). Un milione di morti al minimo, secondo uno studio.

Però ora Kim Jong-un sa che il Consiglio di sicurezza nazionale ha presentato al presidente Trump una revisione della strategia: si va dal consueto inasprimento delle sanzioni al ridispiegamento di armi nucleari tattiche americane in Sud Corea (erano state ritirate nel 1991 da Bush padre), fino alla decapitazione del regime: vale a dire l’uccisione «mirata» degli ufficiali della catena di comando, risalendo fino al maresciallo Kim Jong-un.

Che cosa starà facendo in queste ore Kim? Nessuno dice dove sia la sua residenza a Pyongyang. C’è da credere che come ogni leader di un’area «calda» abbia più di un rifugio protetto (bunker, per intendersi). Joe Detrani, ex alto funzionario della Cia con una lunga esperienza di contatti nordcoreani ha raccontato che «suo padre Kim Jong-il ai tempi della Guerra del Golfo, entrò letteralmente in clandestinità, scomparendo dalla scena per settimane».

La sicurezza intorno a Kim figlio è già rigidissima. E al Corriere risulta da fonti cinesi che si sia fatta «ossessiva» a partire dal 2014, quando Hollywood produsse The Interview , film satirico ma realistico che raccontava un piano della Cia per assassinarlo (realizzato nella finzione cinematografica). Tutti coloro che possono avvicinare Kim, fino al numero 2 della nomenklatura, sono perquisiti minuziosamente: vengono passati ai raggi X anche occhiali, penne, biglietti da visita. A maggio del 2016, quando per il Corriere ho potuto visitare Pyongyang con la promessa di essere portato al cospetto di Kim, dopo dieci giorni e una serie di appuntamenti saltati senza spiegazioni, l’ultima volta, quella buona, sono state necessarie cinque ore e mezza precise di perquisizioni. E naturalmente niente smartphone, per evitare che il Gps potesse indicare la posizione del leader. Nel film hollywoodiano i sicari erano due giornalisti.

La Carl Vinson dunque naviga con un messaggio minaccioso per Kim. Ma anche per la Cina che non vuole o non può collaborare a pieno per disinnescare la minaccia nucleare. Se Xi Jinping aveva davvero immaginato che Trump fosse «una tigre di carta», l’azione unilaterale Usa in Siria lo ha fatto ricredere. Non c’è più molto tempo per risolvere il dilemma.

Guido Santevecchi



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