Tra guerra e terrore, l’asimmetrica normalità

Tra guerra e terrore, l’asimmetrica normalità

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Già la solidarietà di Trump per le bombe nella metropolitana russa sposta l’attenzione sull’atteggiamento del fronte occidentale verso Mosca. Volta a volta considerata nemica, come per la crisi Ucraina. Che, è bene ricordarlo, ha visto la reazione dell’annessione della Crimea a fronte del ruolo non proprio innocente dell’Unione europea e della Nato impegnata ormai nella pericolosa strategia di allargamento a Est. Ma subito riammessa nel club, tardivo, della «lotta al terrorismo» dopo che per almeno quattro anni lo schieramento occidentale, con la Turchia e le petromonarchie del Golfo ha attivato le guerre in Libia e subito dopo in Siria.

Putin è entrato nella crisi siriana non già come riempitivo dello spazio lasciato vuoto dall’Occidente come ripete il mantra giornalistico. Ma per il pieno della sconfitta, prima in Libia con la riattivazione dell’islamismo jihadista e poi in Siria con il sostegno malcelato dell’alleata atlantica Turchia. Alla quale è stato delegato per anni il ruolo di santuario della destabilizzazione siriana.

L’esplosione di fatto della Turchia di Erdogan ha reso evidente la disfatta, con la ritirata di Obama, già- incerto sull’intervento della Nato contro Tripoli nel 2011.

Il leader russo a fine 2015, nel vertice del caminetto alla Casa bianca con Obama è stato di fatto «autorizzato» ad intervenire. Né va dimenticato che tra le ragioni rivendicate da Putin per il ruolo in Siria c’è stata quella di fermare sul campo le migliaia – dai tremila ai 5mila secondo anche le intelligence occidentali – di foreign fighters caucasici, soprattutto ceceni, partiti dalla Federazione russa della quale la Cecenia «pacificata» fa parte, per impedire il loro rientro in patria.

Senza dimenticare che sul campo della guerra in Ucraina, nel Donbass le milizie cecene sono state ampiamente usate, da Mosca con reparti autorizzati dal premier Khadirov, ma anche nel campo avverso con centinaia di miliziani islamisti arruolati nelle formazioni dell’estrema destra ucraina.

Nella Siria ferita a morte si vuole tornare a quattro anni fa. Si distrugge ogni possibilità per i negoziati di Ginevra e di Astana, i qaedisti e i jihadisti dell’Isis sono vendicativi perché sotto assedio a Idlib e a Raqqa; e in rotta a Mosul in Iraq, dove le stragi di civili vengono zittite. Lo sponsor dell’orrore siriano, l’ Arabia saudita, sembra taciturno ma lavora sulla propaganda. Intanto si alternano raid aerei sui civili, dell’una e dell’altra parte. E le stragi cancellano le vittime e la verità. Perché si riparla di «sospetto uso del Sarin», e non può non venire alla memoria l’estate del 2013. Quando non fu provato l’uso dei gas e solo il papa fermò con la preghiera l’intervento dell’America di Obama quasi pronto ad un’altra maledetta guerra.

Detto tutto questo sul fronte internazionale, resta ormai però la rilevanza in Russia dell’iniziativa terroristica.

Nel giorno in cui il presidente russo era in visita a San Pietroburgo. Putin ha fatto della pacificazione della Federazione russa, prima di lui alle prese con un Caucaso incendiato ovunque, in Cecenia, in Daghestan, ma anche sul fronte georgiano in Abkhazia e Ossetia, lì dove nel 2008 la Georgia di Shakahasvili (finito nella leadership di Kiev ma poi cacciato anche da là) e su irresponsabile suggerimento della Nato, mosse alla conquista di territori insorti, subendol’immediata reazione militare russa e una pesante sconfitta. Il fatto è che sulla pacificazione cecena Putin ha giocato buona parte della sua legittimazione al potere, così come ora per la sua strategia d’intervento nella Siria già in guerra.

Pagando a quanto pare ormai un costo elevatissimo per la litania di attentati subiti che alla fine mostrano la vulnerabilità della Russia. Accettando, mentre abbraccia rinnovati interessi di potenza, l’asimmetrica normalità tra guerra e terrorismo. Proprio mentre si riaccende una protesta della scarsa e poco alternativa opposizione russa.

E se sarà confermata la pista dell’attentatore kirghiso, torna centrale anche il fronte asiatico delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, di fatto ancora legate politicamente ed economicamente alla Russia. Sullo sfondo il gioco rimasto aperto dell’Afghanistan in guerra da decenni.

Sembra riaprirsi per la Russia, di fronte alle chiusure in Europa, il dilemma storico, culturale e strategico, che fu prima della Russia zarista ma che si ripropose negli sviluppi della rivoluzione bolscevica e sui destini della ex Urss. E che torna nel disequilibrio nazionalista di Putin. Quello tra linea occidentalista oppure panslavista.

La prima vede i destini russi rivolti verso l’Ovest del mondo, l’altra insiste sull’asse degli interessi orientali. Un grande innovatore in tal senso è stato lo sconfitto Michail Gorbaciov. Parlava per la Russia ancora sovietica e già post-sovietica di «Casa comune europea». Ma tutti sappiamo com’ è andata a finire.

 



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