Pateh Sabally, morte a Venezia

Pateh Sabally, morte a Venezia

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«Non dare da mangiare ai congolesi, sono nutriti».

Cartello posto all’entrata del «Villaggio congolese» dell’Esposizione Universale di Bruxelles del 1897

Domenica 21 gennaio, Pateh Sabally, un giovane rifugiato gambiano di 22 anni si è gettato nel Canal Grande a Venezia, dove è annegato tra gli insulti dei turisti e dei residenti. Sono stati lanciati dei salvagenti, troppo tardi. La profezia del filosofo Gilles Châtelet si è dunque realizzata: viviamo e pensiamo come porci! Dei cyber-zombies reclusi nel recinto di un reality show globalizzato, ciechi rispetto alla nostra schiavitù, finiremo un giorno per divorarci tra di noi.

Non fate finta di non vedere, aprite gli occhi sull’immondo che incombe su di noi: questo complesso di superiorità razziale profondamente radicato nelle società occidentali – a causa di un’eredità nauseabonda non problematizzata (quella del colonialismo) – e palesato dalla morte di un giovane subsahariano, sotto lo sguardo dei passanti divertiti. Aprite gli occhi sulla cancrena del razzismo che le politiche migratorie non fanno che alimentare attraverso l’equazione che stabiliscono nelle menti in modo insidioso: «Migranti» e «giovani di origine straniera» = pericolo per le società europee, ovvero terrorismo, criminalità organizzata, delinquenza, ecc..

A chi ride dell’umanità che annega, vorrei dire questo: il «negro» che agonizza sotto i vostri occhi e che voi insultate, questo «negro» creato dalla fantasia, questo «negro» nato dalla decomposizione del «bianco», questo «negro» non c’è! Semplicemente perché vive nel più profondo di voi. Ma che vi credete?! Non ci si libera con così poco della propria parte d’ombra… Sì, lo so, voi non avete detto «negro», vi siete accontentati di trattare Pateh Sabally da «negro», vale a dire da scarto umano, da vita indegna d’essere vissuta. Non l’avete detto solo perché «negro» è una parola che disumanizza tanto il padrone quanto lo schiavo. Ma laddove voi vedete un «negro» io vedo un ragazzo, vedo la promessa, il desiderio, il soffio, il sogno, il coraggio e l’umanità che si sono spenti in voi – e che segretamente voi invidiate.

Uno screenshot, sul quale sono capitato stamattina, in cui si vede un puntino scuro emergere dalle onde, a qualche bracciata da un vaporetto veneziano, questa scena quasi innocua mi ha ricordato subito i «Tarzan» della mia infanzia: quei film in bianco e nero che passavano la domenica sera su TF1, cari vecchi Tarzan con la storia d’amore tra l’uomo-scimmia e Jane al di sopra della foresta, con l’urlo tirolese che spezzava il silenzio della giungla e lo stile libero supersonico di Johnny Weissmuller che si barcamenava tra i coccodrilli e, sempre in secondo piano, quasi fuori dall’inquadratura, la massa indistinta dei negri – creature scolpite nelle tenebre della barbarie, la cui caduta da una scogliera o l’essere sbranati dalle belve non suscitava più compassione della morte di una bestia da soma.

La prima volta che ho visto un Tarzan, mio padre – nero quanto gli uomini che si vedevano sullo sfondo del nostro piccolo televisore – doveva essere seduto accanto a me, e tuttavia io non lo associavo affatto ai negri di Tarzan. Non riesco a ricordarmi la sua espressione nel vedere tutti questi negri superstiziosi, stupidi e, soprattutto, di una docilità tremenda. Come avrei potuto immaginare la possibilità della sua umiliazione visto che io stesso, come i giovani antillesi descritti da Fanon, m’identificavo completamente con Tarzan? Come avrei potuto vedere in mio padre un «negro», lui che non era che rivolta, lui che passava le sue serate a discutere di Rivoluzione coi suoi compagni esiliati, lui che mi terrorizzava con un solo sguardo ed era ai miei occhi – niente di più comune per un figlio – l’uomo più forte e più coraggioso al mondo?

Ricordo che il giorno dopo questa prima diffusione di Tarzan a cui assistei, mi successe una cosa strana a scuola, come se il film proseguisse o piuttosto mi perseguitasse: urli di scimmie, degli «umgawa», dei «cita», dei «bwana», dei «negro», dei «ritorna nella tua giungla» fioccavano da tutte le parti. Ho capito in quel momento che non facevo parte del campo dei vincitori, il campo dei conquistadores, dei cow-boys, dei Livingstone… Volevo sparire sotto terra, pulire, pulire, pulire con più sapone, più detersivo, più candeggina, questa pelle che non poteva essere la mia, avrei voluto scartavetrarla fino a rimuoverne qualsiasi oscurità, fino a diventare trasparente. Diventare invisibile. Ma no, questo sporco colore non se ne va così, è attaccato alla pelle come il petrolio: non ero altro che un gabbiano invischiato in un mare nero. Con la distanza, questo genere di esperienze mi appare innocua, ma a volte basta un piccolo impatto, una piccola onda di choc perché uno specchio s’incrini e la mia immagine si crepi al punto da non riuscire a riconoscerla.

Chissà cosa ha vissuto Pateh Sabally, quest’ombra che emerge dall’onda… Che riposi in pace.

Proust, per spiegare la terribile delusione che si può provare di fronte a una città sognata, diceva che non si può trovare nella realtà il fascino di un sogno.. Dallo scrigno di un sogno veneziano io oggi ho ricevuto l’indicibile atrocità di un incubo ad occhi aperti.

* professore di filosofia a Mayotte, ha scritto Fugitif, où cours-tu? Paris 2016.
** Traduzione dal francese di Annalisa Romani

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