L’Ilva manda 5mila operai in cassintegrazione

L’Ilva manda 5mila operai in cassintegrazione

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Alla fine di una lunga giornata, di cui da giorni si conoscevano le premesse, arriva quella che forse è la notizia più importante, seppur ancora ufficiosa, per i lavoratori del gruppo Ilva: l’azienda, al termine di un confronto diretto con il governo, pare aver garantito «lo stesso livello reddituale previsto nei precedenti strumenti» per i 4.984 operai dello stabilimento di Taranto.

Operai che l’azienda, ieri mattina durante il consiglio di fabbrica, ha dichiarato in esubero temporaneo e che usufruiranno degli ammortizzatori sociali, la cassa integrazione straordinaria, a partire dal mese di marzo.

L’annuncio alle segreterie provinciali di Fim, Fiom, Uilm e Usb è arrivato in occasione dell’avvio delle consultazioni in vista della scadenza dei contratti di solidarietà. Nel documento consegnato alle organizzazioni sindacali si legge che la decisione si rende necessaria a causa «di fermate parziali o anche totali di tutti gli impianti a valle e a monte del ciclo produttivo a caldo di Taranto, con inevitabile riduzione del fabbisogno di risorse umane». Le fermate saranno modulate tra loro in modo alternato e, quindi, l’effetto non sarà cumulativo. Il sito di Marghera «potrà essere interessato da una fermata totale e completa, sia pure per un periodo parziale e in stretta interdipendenza con il sito ionico».

Il gruppo Ilva è arrivato ad una svolta decisiva della sua storia: il 2017 sarà l’anno della cessione in affitto degli asset industriali. L’azienda ha motivato tale decisione anche con il fatto che «l’attività di impresa nel settore dell’acciaio è fortemente influenzata dal protrarsi della crisi economico-finanziaria internazionale». Congiuntura sfavorevole che ha coinvolto l’intero ciclo produttivo dello stabilimento ionico, e con esso tutti gli stabilimenti e le società ad esso collegate. A questa condizione generale del mercato, a partire dal 2012, «si è associata – spiega l’azienda – una complessa vicenda amministrativa, legislativa e giudiziaria che ha interessato l’unità produttiva di Taranto». L’azienda ha visto quindi «il progressivo attestarsi di produzione e commercializzazione su volumi insufficienti a garantire l’equilibrio e la sostenibilità finanziaria degli oneri derivanti dalla gestione d’impresa, comprendenti gli ingenti costi di adeguamento alle prescrizioni Aia»: il tutto ha progressivamente aggravato la situazione di illiquidità, che ha determinato l’inevitabilità della richiesta di accesso alla procedura di amministrazione straordinaria.

Fim, Fiom, Uilm e Usb di Taranto hanno subito alzato le barricate, ritenendo «inaccettabile aprire un confronto sulla cigs», e rispedendo al mittente la proposta dell’azienda in quanto «peggiorativa in termini di tenuta rispetto al passato». «In particolare – scrivono in un comunicato congiunto – il ricorso alla cigs rischia di aprire fronti incerti rispetto alle tutele occupazionali in una fase delicatissima con alle porte la cessione degli asset produttivi, oltre a produrre ripercussioni pesanti sul reddito dei lavoratori già fortemente penalizzati».

La Fiom Cgil a livello nazionale, aggiunge che «siamo indisponibili ad aprire qualunque confronto in materia di cigs a livello territoriale. Non è pensabile che alla vigilia della presentazione dei piani ambientali, industriali e occupazionali delle due cordate in corsa per l’acquisizione del gruppo, si predeterminino esuberi inaccettabili per la tenuta occupazionale e industriale dell’Ilva futura, provando a fare il lavoro sporco preventivamente».

Per i sindacati il tavolo di discussione deve essere trasferito presso il ministero al fine di ricercare una concreta risoluzione che tuteli l’occupazione e il reddito dei lavoratori. Hanno anche chiesto, per i mesi di gennaio e febbraio, l’anticipo da parte di Ilva dell’integrazione del 10% in favore dei lavoratori collocati in solidarietà.

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