Donne. La nostra scuola di vita

Donne. La nostra scuola di vita

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Era il lontano marzo 1976 quando oltre duemila donne, di 40 paesi, diedero vita al tribunale internazionale sui crimini contro le donne, al Palazzo dei Congressi di Bruxelles. «Per la prima volta – scriveva Simone de Beauvoir – le donne provenienti da ogni parte del mondo prenderanno coscienza dello scandalo della loro condizione, una condizione considerata come fonte di veri e propri crimini».

E tra i crimini, come non era ancora mai accaduto, veniva coniata la parola che doveva indicare l’uccisione per motivi sessuali: «femicidio», oggi «femminicidio».

Dopo 40 anni, quella presa di coscienza ha percorso la lunga strada dell’emancipazione e della liberazione delle donne, svelando nel suo cammino le forme vecchie e nuove della violenza che, ovunque nel mondo e senza distinzione di credo e di classe, ancora ci colpisce fino a morirne. Leggere le cronache delle morti annunciate è un doppio tormento. Perché la violenza del maschio è sempre più brutale (spesso la donna viene arsa viva come ai tempi delle streghe), e perché ci viene descritto il calvario di botte e di maltrattamenti, seguiti da denunce spesso vane, da drammatiche richieste di aiuto.

Abbiamo imparato a riconoscerla, la violenza, ma non fino al punto di riuscire a salvare la pelle. Perché indagarla richiede un lavoro difficile di autoanalisi, che fu prezioso strumento del femminismo negli anni Settanta del secolo scorso, quando iniziammo a capire e a reagire. Tutte insieme, rompendo la solitudine e l’isolamento nella famiglia, nella coppia, nei luoghi di lavoro.

Così ora sappiamo che il raptus del maschio non esiste: il delitto è covato, preparato, organizzato, perseguito contro l’autonomia e l’indipendenza delle donne nella relazione, contro la scelta di interrompere il rapporto con il marito, l’amante, il padre, il fratello. È nella famiglia, nei suoi dintorni che scorre il sangue del femminicidio. Nelle società più aperte e democratiche, come nei paesi più chiusi e dispotici, nelle culture laiche come in quelle oscurantiste, la macabra fantasia dell’annientamento non conosce limiti. Le spose bambine, le mutilazioni genitali, le uccisioni e le pene corporali per le indisciplinate, le donne bruciate. Un catalogo dell’orrore che circonda la vita di milioni di noi.

Come se la ferita che il femminismo ha inferto al potere maschile potesse essere in qualche modo rimarginata solo con il sangue, con la vita stessa della pericolosa soggettività femminile. Naturalmente vengono violentate e uccise anche le donne più quiete e sottomesse, ma l’evoluzione della condizione femminile sembra benzina sul fuoco.

Da sempre, da quando è nato, il movimento femminista ha combattuto contro la violenza. Dell’aborto clandestino, dell’abuso sessuale, come contro quella repressa dentro di sé e spesso ritorta contro se stesse. La presa di coscienza e di parola non si è mai fermata.

È nato un movimento di Centri di cura e di accoglienza per le donne colpite e per i loro figli; si muovono le istituzioni con leggi a sostegno delle vittime; sono in campo moltissimi gruppi di lavoro, femminili e maschili; idee, analisi, racconti e nuovi strumenti giuridici aiutano una generale presa di coscienza della società. Innanzitutto per capire cosa c’è in fondo al pozzo della violenza maschile.

Per questo – nelle pagine che seguono (dell’inserto, ndr)- prendono la parola i maschi in grado di mettersi davanti allo specchio della virilità malata. Per questo siamo andate ad ascoltare cosa raccontano gli uomini in carcere o come ne discutono a scuola i ragazzi.

E abbiamo allargato lo sguardo dall’Italia al resto del mondo, cercando di capire come il veleno del maschilismo entri nella società, quale linguaggio lo alimenti nella comunicazione di oggi, senza trascurare le radici piantate nella culla della civiltà occidentale. Ma questa è solo una tappa di un lungo viaggio che deve avere sempre di più le donne protagoniste e artefici del proprio destino.

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