Massimo Cacciari: “La sinistra smetta di imitare la destra solo così si salverà”

Massimo Cacciari: “La sinistra smetta di imitare la destra solo così si salverà”

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ROMA. Dov’è finita la sinistra? Lo chiediamo a Massimo Cacciari dopo l’inchiesta di Ezio Mauro che ha viaggiato l’Italia in cerca di una risposta. Davvero, dov’è finita la sinistra? Cacciari fa un’analisi cupa ma oggettiva, evoca un «terremoto» che viene da lontano, un processo di degrado che affonda le radici nell’incapacità di rinnovarsi, nella disgregazione della composizione sociale che era alla base delle fortune della socialdemocrazia. La sinistra, dice, ha cominciato a morire un po’ alla fine degli anni 70, quando è partita la grande «trasformazione economica, sociale, culturale, tecnologica». La sinistra inizia a perdere l’anima «quando si mette ad imitare quelli che la stanno sconfiggendo, un inseguimento disperato del thatcherismo, del reaganismo, degli Agnelli, di Marchionne…». E oggi Cacciari? «Oggi la sinistra è qualcosa che può ancora essere, non è del tutto scritto che sia destinata a sparire. Ci siamo vicini ma non è detto».
Cacciari, lei dice che la sinistra, non solo quella italiana, non ha capito che, dopo gli anni dei successi post-bellici, l’epoca keynesiana e socialdemocratica, il mondo stava cambiando, doveva rivedere le sue strategie. Torna molto indietro nel tempo…
«Se non si torna indietro non si capisce cos’è successo e quando è cominciato il declino. In tutti questi anni la sinistra non ha rivisto il sistema di welfare in senso seriamente distributivo, non ha avuto nessuna idea riformista di grande respiro, si è attaccata spasmodicamente alla Costituzione, è diventata sempre più conservatrice nelle politiche sociali».
E oggi le periferie sono perse come viene fuori dall’inchiesta.
«Sono 30 anni che i ceti meno abbienti soffrono una diseguaglianza crescente, il crollo del reddito, il blocco della mobilità sociale, cosa gravissima in una democrazia. Hanno cominciato con il votare Lega, mi ricordo gli operai dei grandi comparti manifatturieri di Vicenza, di Verona… Un processo lungo che ha portato fin qui, con uno come Renzi, che di sinistra non è, che si è mangiato in due morsi il partito. Un partito che è diventato penoso. Io lo voto ancora, razionalmente, perché così bisogna fare in politica: Hollande è meglio di Le Pen. In Germania voterei Merkel perché mi garantisce di più».
E Renzi?
«Se continua così sarei tentato da Grillo».
Il risentimento degli esclusi, quelli che rimangono ai margini, è un’altra cosa, è di pancia.
«È gente che non si sente rappresentata e dà il voto a chi denuncia una situazione realissima. Il populismo non c’entra, rappresenta solo questi processi, li manifesta. Una volta ci si affidava al partito, perché sembrava avesse le soluzioni, ora le persone impoverite, sempre più sole, non ci credono più. Il primo step è il disagio, la protesta. Il secondo è il voto a chi denuncia, il terzo è la deriva di massa verso la destra autoritaria ».
Quale step abbiamo raggiunto?
«Il secondo. Se continua così sono cavoli duri. Grillo non è né Trump né Le Pen, ha una storia diversa per fortuna. Il suo movimento sta facendo da argine. Ma noi siamo sulla soglia di un mutamento di stato. È come con il terremoto, la faglia esplode e il terreno trova un altro equilibrio diverso dal passato, però passando attraverso morti e macerie».
La sinistra può governare senza essere fatalmente vissuta come establishment?
«Certo. Non occorre fare opposizione alla Confindustria, alle banche. Bisogna fare semplicemente politica, tornare a rappresentare i ceti in sofferenza, fare discorsi di verità, smetterla di sbandare, di assecondare e imitare la destra perché poi le contraddizioni si pagano».
C’è un modello Milano che pare funzionare, l’alleanza tra la sinistra di governo e la borghesia.
«Sala ancora ce la fa. È stato vissuto come il meno peggio. Ma vorrei ricordare che a Milano i Cinque Stelle non c’erano. E, come a Torino, le periferie vivono forte il disagio».
È la sottile linea rossa tra la sinistra e gli esclusi di cui parla Ezio Mauro, cui va aggiunta la sofferenza dei giovani.
«I giovani, li vedo all’università, si appassionano quando parli di Europa, quando fai discorsi netti, radicali, coerenti, scappano dalla predica del politico di turno. C’è da capirli: che leggano, che studino e si bevano una birra».
Intanto la faglia si allarga.
«Chi ha sale in zucca deve cercare disperatamente di riannodare i fili della politica, di pensare al welfare abbandonando i modelli universalistici, di rivedere la politica di redistribuzione del reddito, altro che gli 80 euro, e poi ancora le politiche fiscali, sociali. E questo vale anche per l’Europa. Occorre un disegno politico unitario…».
In questo senso l’appuntamento con il referendum rappresenta un prima e un dopo?
«Sì, non c’è dubbio, credo che la scelta meno peggio sia votare Sì. Mi auguro solo che, se vince il Sì, come credo, non ci sia un’ubriacatura da vittoria. Sarebbe peggio di perdere».

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