Dopo il massacro, Yemen in piazza contro Usa e Saud
I 25 km della Perugia-Assisi sono stati teatro di tante lotte. Anche quella al commercio di armi: «L’Italia deve spiegare perché, nonostante la legge 185 metta dei paletti alla vendita di armi, l’abbiamo triplicata», dice al manifesto Don Ciotti, fondatore di Libera. Stessa richiesta da padre Alex Zanotelli: «La nostra ministra della Difesa è appena stata in Arabia Saudita a trattare per armi che vendiamo contro la legge 185».
Armi usate a man bassa in Yemen. Ora la questione non è più solo politica, ma anche giudiziaria: la procura di Brescia ha aperto un’inchiesta sull’esportazione di munizioni dalla Sardegna a Riyadh. L’ipotesi di reato è proprio la violazione della legge 185/1990, tra le più restrittive al mondo, che vieta la vendita di armi a paesi in conflitto.
Nel caso di Riyadh, secondo il pm Salamone, il divieto di export è aggirato perché a produrre quelle bombe è la multinazionale tedesca Rvm. In ogni caso l’Italia ha venduto nel 2015 258 milioni in armi a Riyadh. E potrebbero crescere dopo la visita della ministra Pinotti che con i vertici sauditi avrebbe discusso della cessione di tecnologie navali militari.
Domenica marciavano anche gli yemeniti: in migliaia hanno protestato davanti al quartier generale dell’Onu a Sana’a contro l’ultimo massacro di Riyadh, 155 vittime nel raid di sabato su una commemorazione funebre. L’ennesima strage (che la coalizione a guida saudita nega di aver commesso, ma su cui ha aperto un’inchiesta) solleva un noto vaso di Pandora: ad un anno e mezzo dall’inizio di “Tempesta Decisiva”, dopo 10mila morti, 3 milioni di sfollati, 14 milioni di civili malnutriti e epidemie di colera, collassa il castello di carte della rete di alleanze saudita.
È già crollato l’ultimo tentativo dell’Onu di mettere a tacere le armi (sabato, poche ore prima della strage, le Nazioni Unite si dicevano vicine ad una tregua di 72 ore): il movimento Houthi si è tirato indietro ponendo come ovvia condizione che Riyadh interrompa subito i raid. Il suo leader, Abdel-Malek al-Houthi, ha fatto appello ai capi tribali perché si mobilitino: al funerale colpito sabato (si commemorava il padre del “ministro” degli Interni degli Houthi) erano presenti influenti membri delle tribù locali, che vedono nel raid il superamento di una linea considerata invalicabile.
Oltreoceano lievita il ruolo degli Stati Uniti: secondo la Reuters, che ha visionato documenti ufficiali, da mesi consiglieri governativi Usa avvertono la Casa Bianca del serio pericolo di essere accusati di complicità in crimini di guerra per il sostegno all’Arabia Saudita. Fin da marzo 2015, quando l’attacco cominciò, Washington ha fornito a Riyadh supporto logistico e di intelligence e dato il via libera ad agosto alla vendita di 1,15 miliardi in armi (che si aggiungono ai 110 sotto l’amministrazione Obama).
E ieri è arrivato il primo attacco diretto: due missili sono caduti in acqua vicino al cacciatorpediniere statunitense Mason nello stretto di Bab al-Mandeb, tra i target della guerra perché via di transito delle petroliere dal Golfo all’Europa. Gli Houthi negano la propria responsabilità. Domenica un altro missile aveva colpito la base militare saudita Re Fahd a Taif, dove si trovano anche i soldati Usa che assistono la coalizione anti-Houthi. Nessun danno, ma mai un missile aveva penetrato così in profondità il territorio saudita, arrivando a cadere a 520 km dal confine.
Gli Stati Uniti hanno ribadito le dichiarazioni che da qualche tempo palesano l’intenzione di prendere le distanze da Riyadh: «Siamo profondamente disturbati dal raid – ha detto il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale, Ned Price – Alla luce di questo e altri recenti incidenti abbiamo avviato una revisione del nostro già ridotto supporto alla coalizione a guida saudita. La cooperazione Usa con l’Arabia Saudita non è un assegno in bianco».
Ma sul terreno la strategica alleanza con i sauditi non è in discussione. Dietro sta l’intera strategia mediorientale, il conflitto in Siria e la cosiddetta guerra dei droni contro al Qaeda nella Penisola Arabica che da anni Washington combatte in Yemen dipingendola come modello della lotta al terrorismo. La realtà è diversa: l’intervento dell’Arabia Saudita ha permesso la repentina crescita dei qaedisti che oggi controllano intere città nelle province orientali.
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