Case, auto e cibo: così il ceto medio si sta salvando con l’economia condivisa
Il primo sciopero dei rider, i fattorini torinesi della piattaforma di consegne a domicilio Foodora, ha già avuto l’effetto di rilanciare sulla Rete la discussione sugli effetti della sharing economy sul mercato del lavoro italiano, discussione finora vissuta quasi esclusivamente sul conflitto tra Uber e i tassisti. Si calcola che il 17% degli italiani usi una piattaforma digitale di condivisione (Airbnb, BlaBlaCar, Gnammo e il car sharing) e il successo è crescente avendo la sharing economy saputo coniugare l’elemento razionale (l’utilizzo ottimale delle risorse) con quello valoriale (la gratificazione di concorrere a qualcosa di socialmente utile). E abbia di conseguenza coinvolto oltre al popolo del politicamente corretto anche una frazione crescente del ceto medio non riflessivo. Per di più è riuscita a mettere d’accordo culture politiche assai diverse tra loro, si trovano tifosi della sharing tra i liberali ortodossi come tra i sostenitori della teoria dei beni comuni. Spiega però Ivana Pais, sociologa dell’Università Cattolica di Milano: «Attenzione a non fare confusione. Il caso di Foodora non rientra nella sharing, è una prestazione a chiamata e quindi più tradizionale. A fare il prezzo non è chi presta il servizio ma l’azienda-madre e può accadere che si parta con compensi alti per i fattorini e prezzi bassi per i clienti e poi una volta conquistato lo spazio di mercato si cambino le regole per aumentare il profitto». La verità è che la sharing economy favorisce il ceto medio che ha bisogno di integrare il proprio reddito e coltivare la possibilità di diventare piccolo imprenditore, quanto al lavoro dipendente invece crea quelli che ci siamo abituati a chiamare lavoretti — negli Usa la chiamano gigeconomy — che dovrebbero essere retribuiti con equità e non con meccanismi da economia sommersa.
Spiega Marta Mainieri, fondatrice di Collaboriamo e organizzatrice della due giorni di Sharitaly in programma a Milano per metà novembre: «La sharing si confà alla perfezione al ceto medio: per avere un ruolo attivo bisogna possedere un bene e se si tratta della casa è più facile metterlo a reddito. Non averla equivale a rimanere senza il biglietto d’ingresso». Questo spiega come la piattaforma che ha più successo in Italia — e va in soccorso del ceto medio — è Airbnb, che affitta le abitazioni e oggi coinvolge almeno 100 mila host (nel gergo sono le persone che mettono a disposizione la loro prima o seconda casa). A proposito di beni posseduti gli inglesi noleggiano persino i gioielli o il posto macchina e la piattaforma Skillshare ha provato a mettere sul mercato della condivisione le competenze intellettuali (skill).
Il caso Airbnb
Avendo le proteste dei tassisti bloccato Uber, Airbnb resta il vero caso di studio monitorato con attenzione anche dalle associazioni degli albergatori che non mancano di avanzare dubbi sulla reale trasparenza della piattaforma. I dati nazionali ci dicono che i 100 mila host di cui abbiamo parlato hanno percepito in media nel 2015 un bonus di 2.300 euro ciascuno. Ancora poco, ma si tratta di una media perché il grosso delle transazioni si ha in quattro città (Venezia, Firenze, Roma e Milano) che richiamano turisti per l’intero anno e in questi casi l’integrazione di reddito è molto superiore. In riva all’Arno siamo sui 6.300 euro annuali e nella Capitale sui 5.500. Si calcola che in media un host dia vita a tre annunci di affitto di spazi diversi, di conseguenza è facile che in futuro si crei una polarizzazione: da una parte chi del noleggio-casa ha fatto un’attività costante e chi invece si è fermato all’integrazione saltuaria di reddito. Per ora i dati sulle fasce di ricchezza degli host sono equilibrati: il 27% gode già di un reddito annuo superiore ai 33 mila euro ma il 24% ha meno di 13.600 euro. «Il reddito generato grazie alla nostra piattaforma aiuta gli host italiani a far quadrare i conti e a rimanere nelle case che amano. Il reddito di molti di loro è inferiore al reddito medio in Italia» dicono ad Airbnb. E il caso più citato è quello di Milano dove c’è la maggiore estensione del numero di host e nella settimana del Salone del Mobile risulta si affittino anche case molto lontane dal centro.
Un reddito extra per il ceto medio
Così mentre le élites rimpiangono la vecchia cetomedizzazione del Paese (che prima disprezzavano) la sharing economy in qualche modo la ricrea. Qualche host si è trasformato addirittura in un piccolo giocatore di Borsa che aumenta il prezzo dell’affitto in corrispondenza del mutamento della domanda, vedi sempre il caso milanese di Expo e delle settimane della moda. Altri sono diventati dei piccoli albergatori, capaci di studiare i movimenti della concorrenza, curare il marketing e la soddisfazione del cliente, investire sul look della casa: tutto con l’obiettivo di riempire per un maggior numero di giorni possibili l’anno. Teniamo presente che la differenza di guadagno tra affittare l’abitazione a un inquilino fisso come da tradizione e invece puntare sulla rotazione via sharing può essere del 100% a favore di quest’ultima anche con un’occupazione dell’appartamento di 20 giorni su 30 al mese. Il fenomeno non è solo italiano e il «Financial Times» ha dedicato qualche mese fa un lungo articolo all’extra-reddito immobiliare del ceto medio inglese. E comunque per avere un’idea delle iniziative sorte attorno alle piattaforme di affitto (non c’è solo Airbnb che è la più nota) a Firenze si è formata Ospitalità Alternativa un’associazione di piccoli gestori, ma soprattutto sono nate attività legate all’indotto del noleggio di abitazioni. Servizi di pulizia, servizi di consigli di arredamento, portierato. A Milano è spuntato un gruppo Facebook curato da Carlotta Bianchini che serve a scambiarsi le informazioni su aspetti fiscali, pratiche burocratiche, rapporti con le autorità amministrative e di polizia. «Vogliamo evitare che si allarghi la piaga degli abusivi che già esistono e con prezzi bassissimi in realtà eludono Fisco e controlli» dice Bianchini. C’è anche un’altra variante, di tipo generazionale: i genitori che danno in gestione le loro seconde case ai figli perché si responsabilizzino, inizino un’attività o comunque facciano apprendistato organizzativo. Le idee di business non mancano e sta nascendo anche un filone di turismo sanitario con collegata offerta di servizi complementari capace di fornire infermieri h24.
Il rischio «professionalizzazione»
Sarebbe un errore però ricondurre tutta la sharing ad unum vuoi perché si tratta di esperienze recenti e in rapida trasformazione (e quindi difficili da normare con un legge passepartout) vuoi anche perché i modelli di business delle piattaforme sono assai diversi tra loro e risentono delle caratteristiche del settore dove operano e anche delle differenze di carattere culturale tra americani ed europei. «La grande divaricazione che nel mondo della sharing si è creata è tra lavoro professionalizzato e prestazione occasionale e le piattaforme si caratterizzano anche per la scelta a monte che hanno fatto» spiega la sociologa Pais. Ad esempio BlaBlaCar, la piattaforma francese che organizza i viaggi in condivisione e ha riportato all’onore delle cronache il vecchio autostop, sta ripulendo gli elenchi dei suoi autisti per evitare che qualcuno di loro, insistendo su una determinata tratta, si costruisca un business. Al contrario di Airbnb e di come avrebbe agito Uber. La piattaforma Gnammo, che consente di organizzare cene in casa propria facendo pagare gli ospiti, ha messo addirittura un limite ai ricavi di 5 mila euro annui, assai basso, proprio per evitare la professionalizzazione spinta. «Sono esperienze sicuramente più vicine alla narrazione iniziale della sharing — sostiene Mainieri —. Qui diventa centrale non tanto l’incremento di reddito o la professionalizzazione ma il risparmio e il confronto culturale. Viaggiando insieme in auto si mischiano comunità diverse e in una fase storica in cui la diffidenza dell’altro cresce il fatto che si accetti di stare ore in macchina con dei perfetti sconosciuti è un segno di grande apertura mentale». Resta, infine, il tema della tutela sindacale per chi lavora nelle piattaforme a chiamata come Foodora. «Lo sviluppo della sharing pone anche al sindacato una serie di domande nuove — risponde Massimo Bonini, giovane segretario generale della Cgil di Milano —. Se hai la seconda casa e la metti su Airbnb è integrazione del reddito, l’autista di Uber invece fa un vero lavoro. Per il resto bisogna capire bene quale sia il rapporto di lavoro tra l’azienda di consegna del cibo e i fattorini. La sharing non c’entra, bisogna più semplicemente accertare se sono rispettate le leggi e se esiste un contratto di qualsiasi natura esso sia».
Dario Di Vico
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