Turchia e Rojava, tregua «approssimativa»
Nessuna parata militare in grande stile quest’anno: il Giorno della Vittoria, immancabile occasione per celebrare le radici del nazionalismo turco, ieri è stato festeggiato in sordina. Dal Ministero della Difesa spiegano che il trauma subito la notte del 15 luglio, il tentato colpo di Stato, va superato lentamente. Forse si preferisce evitare una marcia delle forze armate i cui vertici sono stati decapitati dalle purghe post-golpe.
Non che il presidente Erdogan, che con lo stato di emergenza ha posto esercito e servizi sotto il proprio diretto controllo, non voglia risollevare le sorti dei militari. Per farlo ne esalta le gesta nel nord della Siria, facendo leva sulla facile propaganda della lotta al terrorismo. Peccato che – di nuovo – a scontrarsi contro l’Isis non siano le truppe turche penetrate, per la prima volta ufficialmente, in territorio siriano ma i kurdi delle Ypg. Ovvero quelli a cui danno la caccia da una settimana i sempre più numerosi carri armati di Ankara. Nel pomeriggio di ieri è, però, giunta la notizia di un accordo di cessate il fuoco tra le Forze Democratiche Siriane, Sdf, e l’esercito turco. A renderlo noto è stato il colonnello Thomas, portavoce del Comando Centrale della coalizione anti-Isis: «Nelle ultime ore abbiamo ricevuto l’assicurazione di tutte le parti coinvolte di una cessazione delle ostilità così da focalizzarsi sulla minaccia Isis. Un accordo approssimativo che durerà un paio di giorni, speriamo che si consolidi».
Thomas ha poi specificato che l’accordo è stato frutto della mediazione Usa. Le Sdf confermano parlando però solo di una «pausa», dalla Turchia non giungono commenti ufficiali. Ieri, per il sesto giorno, altri veicoli militari turchi erano entrati nel nord della Siria, in Rojava. E il capo di stato maggiore turco, Hulusi Akar, aveva precisato che Ankara non avrebbe mollato la presa. Una risposta diretta proprio alle recriminazioni degli Usa che, dopo aver sostenuto l’inaugurazione dell’operazione Scudo dell’Eufrate, lunedì hanno tolto l’appoggio. A monte sta l’obiettivo reale dell’offensiva, che la Turchia non ha comunque mai nascosto: le truppe turche e i miliziani delle opposizioni siriane (Esercito Libero in prima linea, ma anche gruppi turkmeni e islamisti) si stanno velocemente muovendo verso sud-est. Presa Jarabulus, frontiera nord-occidentale, i “ribelli” siriani minacciano Manbij.
Ironia della sorte, se si trattasse davvero di coincidenze, mentre i bulldozer militari di Ankara sono impegnati alla frontiera con Rojava a costruire un muro che separi i cantoni turchi dal Kurdistan turco, a combattere lo Stato Islamico sono ancora le Ypg alla testa delle Sdf, la ricca federazione di kurdi, arabi, circassi, turkmeni e assiri che sta ripulendo il nord della Siria dalla presenza Isis (il nemico che in teoria era la ragione scatenante l’operazione Scudo dell’Eufrate): a sud ovest di Manbij, liberata dall’occupazione islamista il 12 agosto, ieri si sono registrati scontri tra Sdf e sacche islamiste, fa sapere Shervan Darwish, portavoce Sdf.
Le Sdf hanno difeso alcuni villaggi del distretto di Manbij, attaccati con almeno tre autobombe dall’Is: gli islamisti, dice Darwish, hanno approfittato degli scontri in corso con le opposizioni siriane e che hanno indebolito le difese delle Sdf. Nel pomeriggio l’assalto del “califfato” non era ancora cessato, ma i jet Usa erano intervenuti a difesa degli alleati a terra. La posizione di Washington si fa ogni giorno più complessa, tra l’incudine kurda e il martello turco. Ieri alle proteste di Washington si sono aggiunte quelle della Francia. Il presidente Hollande ha avvertito la Turchia: «Questi interventi multipli e contraddittori portano con sé il rischio di una più ampia escalation». Per cui, suggerisce, Ankara deve subito interrompere i raid sulle Ypg.
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