La crisi è del modello, occorre un’alternativa

La crisi è del modello, occorre un’alternativa

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(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)

 

Guasto è il mondo delle società diseguali che esasperano le diseguaglianze. Quindi guasto è il nostro mondo, che deve essere cambiato, non solo nella dimensione del potere, ma anche in quella dell’opposizione, politica e sociale. Su quest’ultimo punto, quello dell’opposizione sociale, Enrico Panini ha delle idee molto nette: il sindacato deve superare, senza perdere le radici e non in termini burocratici, le situazioni nazionali. Solo così può diventare un soggetto in grado di affrontare i poteri forti sul piano mondiale. Ma il sindacato si deve saper rinnovare anche sul piano della formazione e degli strumenti di comunicazione, che devono essere sempre più adeguati a tempi di trasformazione epocale. Infine, gli iscritti, che sono la linfa del sindacato democratico e il termometro dello stato di salute di un’organizzazione: Panini evoca, a questo riguardo, una figura mitica della CGIL come Giuseppe Di Vittorio.

Il segretario nazionale della CGIL Enrico Panini è responsabile per la Comunicazione sindacale; la Formazione sindacale e informatica; le Politiche amministrative e finanziarie; le Politiche organizzative e di insediamento; i Rapporti organizzativi con enti, associazioni, istituti, cooperative del sistema CGIL.

 

Redazione Diritti Globali: In Guasto è il mondo, Tony Judt scriveva che più una società è uguale, maggiore è la fiducia e che l’assenza di fiducia è un chiaro ostacolo a una società ben gestita. Questi decenni sono stati il trionfo della diseguaglianza, esibita come un trofeo dal pensiero neoliberista. I risultati sono evidenti: una crisi che solo il futuro dirà se è stata realmente inferiore per intensità alla Grande Depressione. Quali politiche economiche occorrono per invertire questa rotta disastrosa che ha travolto prima i poveri, poi il ceto medio e che ora potrebbe travolgere anche i benestanti?

Enrico Panini: La crisi in atto, della quale non si intravvede un’uscita credibile e che riverbererà i suoi effetti – in assenza di correttivi precisi – per lunghi anni, è la crisi di un intero modello di sviluppo che ha caratterizzato il secolo scorso, in generale, e dal 1960 in poi nello specifico. Occorre cambiare il paradigma dello sfruttamento (delle persone, del’ambiente, della fatica, della divaricazione tra Nord e Sud, ecc.) per sostituirlo con uno sviluppo compatibile che assuma il mondo come la dimensione di riferimento.

Operazione complessa, verso la quale sono presenti pratiche e prime elaborazioni molto consistenti e positive, e per la quale occorre ricostruire rapporti di forza diversi, puntando sull’internazionalizzazione (non burocratica) delle organizzazioni sindacali e dell’iniziativa. Vale la pena di provarci.

Per altro consiglio ai “disincantati” di riflettere su questi due elementi: a) nel 2030 saremo in nove miliardi di essere umani su un pianeta che, a fatica, ne sopporta sette; b) la vasta disperazione sociale in corso rischia di creare violenza e conflitti.

Occorre una risposta!

 

RDG: Il dominio della finanza è la nuova forma del capitalismo con cui occorre fare i conti o è una patologia dell’avidità sovrapposta alla logica del profitto?

EP: Se il 52% della ricchezza mondiale è prodotto dalla finanza (Rapporto ONU 2011), significa che siamo di fronte all’acuirsi non solo di una patologia ma di una vera e propria crisi di modello. Insisto, va costruita un’alternativa culturale e politica a questa situazione. Trovo poi insopportabile (da tutti i punti di vista) l’avidità – in particolare – del sistema bancario che ingrassa sfruttando le risorse iniettate nel sistema e strozzando persone, imprese e investimenti.

Il Governo Monti, l’Europa non possono osservare silenti questa “rapina” legalizzata.

 

RDG: Negli Stati Uniti, una robusta iniezione di liquidità, anche se non da tutti considerata sufficiente, a partire da Paul Krugman e da Joseph E. Stiglitz, sta portando a una diminuzione costante del tasso di disoccupazione e a una sia pur timida ripresa economica. In Europa sta avvenendo il contrario e non a caso si è in recessione o vicini a essa. Perché appare così difficile seguire in ambito europeo il percorso neokeynesiano degli Stati Uniti?

EP: Perché negli Stati Uniti, pur con grandi timidezze, è iniziato, grazie ad Obama, un percorso concreto teso a limitare e parzialmente correggere il privato come regolatore di tutto, dei diritti come della vita. In una parte consistente della vecchia e superba Europa (quella che più conta nel rapporto fra Stati) si pensa, invece, che l’esportazione di un modello nazionale (inasprito sui Paesi “riceventi”) rappresenti una soluzione per tutti. È sufficiente il confronto fra alcuni indicatori per vedere che questa scelta non produce effetti positivi.

D’altronde, o si superano davvero gli Stati nazionali, così come li abbiamo conosciuti, o non vedo un futuro equo come scelta dei singoli governi: Monti docet.

 

RDG: L’International Trade Union Confederation (ITUC) ha condotto, a partire da ottobre 2010, una campagna di mobilitazione per l’istituzione di una Tassa sulle Transazioni Finanziarie internazionali, a difesa del lavoro, dell’economia e dell’equità. Dopo la campagna, quali sono le iniziative che le forze sociali possono portare avanti per ottenere di controllare almeno minimamente l’enorme quantità dei flussi finanziari?

EP: Costruire una piattaforma europea, raccogliere firme su una petizione europea, costruire mobilitazione, azioni pacifiche e dirette, investire con determinazione e iniziative conseguenti il parlamento europeo, anche presso la sede del parlamento stesso. Accompagnare tutto ciò con campagne nazionali. Dare risposte a questo giusto tema non significa partecipare a un pranzo di gala. Allora bisogna articolare e rilanciare la giusta iniziativa dell’ITUC.

 

RDG: A giugno dello scorso anno si è tenuto un incontro tra i rappresentanti delle organizzazioni sindacali europee e quelli dello United Auto Workers presenti all’interno del Gruppo FIAT-Chrysler. La FIAT, ovviamente, oppone resistenza. Le trasformazioni in atto possono accelerare la consapevolezza di una dimensione internazionale delle organizzazioni sindacali non solo di secondo livello?

EP: Direi proprio di sì. Avverto, come tanti, una resistenza dei ceti sindacali burocratici a “difendere” prerogative nazionali e a vedere la dimensione internazionale come una burocrazia costosa, dovuta, ma sostanzialmente ininfluente. Nessuna faciloneria è alla base di questa mia affermazione: un sindacato segue anche gli assetti istituzionali dati del proprio Paese e quelli mondiali. E ritardi e lentezze sono ben presenti a ognuno di noi. Ma o si cambia o la salita diventa molto più dura.

La CGIL deve, in modo ancora più visibile di quanto fatto finora, farsi interprete di questa inderogabile esigenza.

 

RDG: Il 28 giugno 2011, per la prima volta dopo tre anni, è stato trovato un accordo unitario tra CGIL, CISL e UIL da una parte e Confindustria dall’altra sulla rappresentanza sindacale e sull’efficacia della contrattazione, con il riconoscimento della certificazione degli iscritti e del voto delle Rappresentanze Sindacali Unitarie sul piano della rappresentanza, e con la riproposizione del contratto nazionale come fonte che predetermina gli altri livelli di contrattazione. Si tratta di un passo in avanti, della ripresa necessariamente mediata di un faticoso cammino unitario o di una parziale e realistica rinuncia ad alcune posizioni espresse dalla CGIL in questi anni?

 

EP: Al netto di tutte le letture analitiche del testo, quell’accordo è positivo su più fronti. Perché afferma il primato del contratto nazionale. Perché pone un freno netto alla deregolazione. Perché sconfessa Marchionne. Perché inizia a introdurre un significativo processo di validazione democratica degli accordi. Perché assume il tema della trasparenza circa il reale peso delle organizzazioni sindacali come un tema fondamentale. Quest’ultima è una questione rilevante perché indica una strada importante anche per il sistema della politica. Ora bisogna realizzare, parola per parola, ciò che è stato sottoscritto. Noi siamo impegnati verso questo obiettivo.

 

RDG: Gli iscritti alla CGIL hanno votato in larga maggioranza: oltre 520.000 a favore dell’accordo e quasi 125.000 contrari, rispetto all’accordo del 28 giugno 2011 sulla contrattazione e la rappresentanza sindacale. Ha vinto una rinnovata volontà di riprendere un percorso unitario o la consapevolezza che, si trattava di un risultato accettabile, positivo e utile?

EP: Posso dire? L’uno e l’altro elemento. È bene però anche sapere che laddove si è riusciti a sviluppare un confronto più disteso nel tempo con iscritti e non iscritti il merito è stato ampiamente valorizzato. Tutto questo non è poco.

 

RDG: Nei mesi più acuti della crisi le parti sociali hanno dimostrato un senso di responsabilità decisamente più alto rispetto al governo presieduto da Silvio Berlusconi, anche attraverso l’estensione di documenti comuni. Questi appelli, scritti dalle parti sociali per salvaguardare l’economia, la società e il lavoro nel Paese nella fase più acuta della crisi, sono stati determinati dalla situazione d’emergenza, un po’ come per la maggioranza tecnica di supporto al governo presieduto da Mario Monti, o dalla scelta di un confronto preventivo che può conoscere ulteriori sviluppi?

EP: Ho avvertito anch’io che per una fase le cosiddette “parti sociali” hanno messo in campo una responsabilità sociale molto evidente, firmando documenti impegnativi e cercando di svolgere un ruolo fondamentale. Al degrado (da ogni punto di vista) della situazione determinatasi con l’azione del governo Berlusconi, le parti sociali hanno deciso di giocare un ruolo responsabile e di condizionare la scena politica. Ciò che sconcerta è che al dunque Confindustria non è mai stata coerente con ciò che ha sottoscritto e ciò ha determinato, oggettivamente, un vero limite non nell’immediato (contrapporre alla dannosità di Berlusconi un ruolo responsabile e condiviso) quanto nella capacità di affermare la necessità di un progetto riformatore. Ognuno ha un ruolo che deriva da ciò che rappresenta, ma, se non si assume la responsabilità come un tratto dal quale partire anche per Confindustria, siamo punto a capo.

 

RDG: La CGIL da tempo è impegnata nel rinnovamento della formazione sindacale e nell’informatizzazione del sistema e della comunicazione. Quali sono stati finora i risultati più importanti di questo lavoro e quali sono i prossimi obiettivi?

EP: Sulla comunicazione siamo passati in breve tempo da posizioni residuali a un “posizionamento” assolutamente positivo. Se a settembre 2008 eravamo, nella classifica nazionale dei siti internet, in una posizione che vedeva davanti a sé atri 8.000 siti per numero di accessi, a settembre 2011 eravamo alla posizione 2.300 sulla lista generalista e alla posizione numero 2 per numero di “click” sui siti sociali (prima di noi solo l’INPS). Quasi 400.000 visitatori unici tutti i mesi. I nostri video, facebook, twitter sono un punto sicuro di riferimento, con numeri di contatti davvero impressionanti. Ora il progetto è cambiato di mano nelle responsabilità e bisogna andare oltre, partendo da quanto abbiamo già realizzato. C’è molto da fare, soprattutto in termini di qualità e di fruibilità. La formazione sindacale (fra il “Progetto 20000” e l’Università del Lavoro) ha dato frutti importanti per qualità e quantità dal 2008 al 2011. Il “Progetto 20000” si riferisce a delegati in formazione confederale su valori identitari. L’Università del Lavoro è rivolta alla formazione delle competenze di base del sindacalista, ma a livello alto, e alla condivisione (mediante i seminari) di una linea socializzata su temi fondamentali (ambiente, immigrazione, ecc.).

Considero quell’esperienza terminata. Ora la formazione deve fare i conti con la dimensione spazio/tempo/risorse/partecipazione e deve scegliere con nettezza la formazione a distanza e la virtualità come le “nuove aule”.

 

RDG: Dal punto di vista degli iscritti e della partecipazione organizzativa, qual è lo stato di salute della CGIL in un momento molto difficile per i lavoratori, le famiglie, le parti più fragili della società?

EP: Per quanto riguarda gli iscritti, bene. Cresce l’adesione, chiudiamo il 2011 con il tasso più alto di iscrizione rispetto agli ultimi tre anni. Stiamo chiudendo la certificazione nazionale dei nostri iscritti perché noi non ci stiamo al balletto, sponsorizzato da alcuni grandi quotidiani, relativo a iscrizioni gonfiate nelle organizzazioni sindacali. Penso che i margini di crescita della CGIL siano molto consistenti e che fondamentale sia l’orientamento dei gruppi dirigenti. Basti pensare, senza sottintendere trasposizioni meccaniche, all’adesione a scioperi e a manifestazioni, di gran lunga superiore alla nostra rappresentanza, o al voto per il rinnovo delle Rappresentanze Sindacali Unitarie. In particolare, nel lavoro pubblico il voto ci ha attribuito un consenso triplo rispetto alla nostra base associativa. I risultati positivi sono possibili solo se il fare iscritti viene considerato un’attività primaria e “nobile” come attività primaria. Segnali positivi in questa direzione ci sono e sono significativi. Bisogna rileggere (e praticare) Giuseppe Di Vittorio, quando scrisse che l’iscrizione è il termometro primario e fondamentale per misurare l’avanzamento delle posizioni della CGIL.



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