Nessuno sbocco senza un altro modello di sviluppo

Nessuno sbocco senza un altro modello di sviluppo

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(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)

 

Il declamato obiettivo del governo Monti di “fare giustizia” nel rapporto tra generazioni sta trovando ostacoli e oppositori, perché si basa sull’idea che per lavorare a favore delle giovani generazioni sia necessario affievolire i diritti delle più vecchie. Quando, a ben vedere, le difficoltà che incontrano nell’entrare nel mondo del lavoro con qualità e garanzie stanno piuttosto in un modello di sviluppo giunto al capolinea e, anche, in una politica che si attesta sul breve respiro dei bilanci da risanare. Non solo: ma per rilanciare la crescita, in ogni caso, si deve investire sui giovani, per esempio incentivando istruzione, formazione, ammortizzatori all’altezza dei tempi. In una parola, non mortificare il welfare come un costo da abbattere. Delle prospettive che le strategie europee e italiane (non) stanno delineando per le giovani generazioni discutiamo con Felice Roberto Pizzuti, docente di Politica economica presso l’Università di Roma Sapienza.

Redazione Diritti Globali: Il suo lavoro di ricerca si è concentrato molto sui giovani. Nel complesso quadro delle variabili che influenzano la vita dei “figli” e le loro possibilità di costruire un presente e avere un futuro, lei annovera e anzi sottolinea come incisivi i fattori correlati alle scelte delle politiche pubbliche, dalla formazione alle regole di ingresso nel mercato del lavoro, dal governo della flessibilità ai sistemi di welfare e di sicurezza sociale. Il governo Monti ha dichiarato fin da subito che la creazione di un nuovo e sostenibile patto tra generazioni è al centro della sua azione politica. Di contro, nei mesi non sono mancate polemiche anche dure e conflitti sia con i sindacati che con i movimenti dei giovani, decisamente critici verso l’approccio liberista che “i tecnici” al governo stanno promuovendo. Qual è il suo giudizio sui primi passi del “governo dei tecnici” su questo fronte? E quali le contraddizioni più evidenti tra l’approccio governativo e l’obiettivo dichiarato del nuovo patto generazionale?

Felice Roberto Pizzuti: In primo luogo, va chiarito un equivoco diffuso che riguarda i rapporti tra generazioni. Il problema dei giovani non è dato dal presunto egoismo dei padri nei loro confronti; invece, la crisi globale in corso e la specificità negativa della situazione italiana stanno pesando sulla situazione di tutti i “perdenti”, a prescindere dall’età. La discriminante tra chi ha subìto molto, poco o nulla e chi ha guadagnato posizioni negli ultimi anni non passa tanto per l’età quanto per la classe, per il territorio, per il genere e per la famiglia d’appartenenza. Tuttavia, esiste anche una specifica problematica dei giovani, anzi si può parlare di vera e propria questione giovanile; ma essa è fondamentalmente legata al fatto che essi stanno cercando di entrare nel mondo del lavoro proprio nel bel mezzo di quella che si avvia a essere la più grave crisi del capitalismo in tempi di pace, caratterizzata, tra l’altro, dalla grande difficoltà del sistema produttivo di offrire posti di lavoro, adeguati sia per la corrispondenza alla formazione dei giovani sia per la stabilità e l’entità delle remunerazioni. Allo stato attuale, l’incertezza si estende fino al futuro pensionistico che appare molto nebuloso e comunque insoddisfacente.

L’idea che per dare qualcosa in più ai giovani occorra toglierla ai loro padri è una tesi sbagliata e pericolosa per la coesione sociale. Ciò che è necessario è cambiare il modello di sviluppo economico-sociale per consentire una ripresa quantitativa e qualitativa della crescita. Ma per farlo bisogna contrastare gli interessi e liberarsi dalla visione economico-sociale che hanno condotto alla crisi globale e allo specifico declino italiano. L’approccio del governo Monti verso la riforma delle regole del mercato del lavoro sembra essere proprio quello di favorire i giovani togliendo qualche presunta situazione di privilegio degli anziani. In questi progetti, oltre all’equivoco prima evidenziato, se ne evidenzia un altro che riconduce ancora al persistere di una visione economica inadeguata alle circostanze imposte dalla crisi: essenzialmente, la crisi globale è stata generata dalla progressiva difficoltà di adeguarsi alla dinamica della capacità produttiva. Questa difficoltà è stata alimentata dal peggioramento della distribuzione del reddito che ha ridotto i consumi e dal rallentamento imposto alla domanda pubblica, specialmente di quella sociale.

In questo contesto, la cosa più importante è rilanciare, anche qualitativamente, la domanda; viceversa, né le imprese né i lavoratori avvertono come problema primario da risolvere quello di migliorare la regolamentazione del mercato del lavoro.

In ogni caso, anche dal punto di vista delle condizione dell’offerta, ciò che occorre è una maggiore stabilità dei posti di lavoro, ma prima ancora è necessaria una forte innovazione del sistema produttivo e, a tale riguardo, occorrerebbe incrementare le spese per istruzione, formazione e per le reti di sicurezza (ammortizzatori economico-sociali) che favoriscono l’intrapresa di nuove attività produttive inevitabilmente più rischiose.

 

RDG: L’Italia, nel confronto con i Paesi UE, conta pochi successi nella lotta alle povertà: mentre la sanità (a oggi) regge, una lettura delle percentuali di PIL investite nei vari settori dell’assistenza sociale e delle ricadute poverissime in termini di miglioramento delle condizioni di vita delle strategie messe in atto, rende evidente questa debolezza. Mancanza di una forma di sostegno universalistico al reddito, pochezza delle politiche abitative, inconsistenza delle politiche a favore delle donne, solo per dire alcuni aspetti, non hanno nel susseguirsi delle legislature, trovato risposte. Crede che nella situazione attuale, tutta dominata dall’imperativo di bilancio, ci sia qualche concreta chance per politiche innovative? E come influisce sulla lotta alla povertà la strategia comunitaria, dopo il passaggio dalla Strategia di Lisbona al programma Europe 2020?

FRP: Gli ultimi dati resi noti dall’ISTAT confermano la tendenza nel nostro Paese all’aumento della povertà e delle diseguaglianze. Anche a questo proposito va rilevato un equivoco nella visione economico-sociale affermatasi negli ultimi decenni anche nell’Unione Europea e in Italia. Nonostante i buoni propositi stabiliti con la Strategia di Lisbona varata nel 2000, che aveva fissato ambiziosi obiettivi in campo sociale, con il passare degli anni e con il progressivo affievolirsi della capacità di crescita si è affermata l’idea che le spese sociali siano un sorta di lusso che non ci si può più permettere e non, invece, uno dei presupposti della ricchezza economica, sociale e civile del nostro continente. Il cosiddetto Modello sociale europeo è diventato un’etichetta sempre più priva di sostanza. Ma questo fraintendimento si è concretizzato in diversa misura nei differenti Paesi europei. Nei sistemi economici come quello italiano, che hanno persistito nel ricercare la competitività essenzialmente sul piano dei prezzi, cioè puntando a ridurre i costi, gli oneri salariali e sociali sono apparsi in misura maggiore come spese da ridurre, mentre sempre meno si avvertiva l’utilità delle spese per il welfare come investimento in capitale umano e infrastrutture di stimolo alla capacità innovativa.

Ancora una volta, una miope visione improntata alla logica dei bilanci di breve periodo non è stata in grado di valutare il ruolo degli investimenti economico-sociali indispensabili per rafforzare la crescita quantitativa e qualitativa di lungo periodo.

Non si può uscire dalla crisi solo aggiustando i bilanci e senza investire; ciò vale anche per gli investimenti sociali, cosicché pare illusoria l’idea del governo Monti di riformare gli ammortizzatori sociali senza dedicargli risorse finanziarie. Nel complesso, le manovre finora fatte dal governo Monti, anche per il vincolo posto dalle miopi e controproducenti politiche comunitarie per contrastare la crisi, stanno alimentando una spirale depressiva che è pericolosa non solo dal punto di vista degli equilibri economici, ma anche per la coesione sociale. Gli effetti di queste politiche, che confondono il rigore ragionieristico con le esigenze di rilancio macroeconomico, sono controproducenti non solo a livello nazionale, ma anche per il processo unitario europeo che, se opportunamente alimentato e perseguito, potrebbe dare un’importante e forse insostituibile contributo al superamento della crisi non solo in Europa, ma a livello globale.

 

RDG: Proprio questa logica dei bilanci a breve periodo sta alla base della “triade à la Monti”: rigore sui bilanci pubblici subito, crescita poi ed equità dopo ancora (e forse), così riportando all’ordine del giorno il tema di un welfare come “peso” o “lusso”, e non come motore di sviluppo, come lei ha sottolineato. Contro questo approccio, e per la ripresa di un “governo” della politica sull’economia, si stanno mobilitando i nuovi movimenti, da quello italiano sui beni comuni a quello mondiale contro le diseguaglianze, fino ad arrivare al recente movimento dei sindaci. A che punto è la politica, dentro questo scenario? C’è qualche possibilità che sappia riprendersi un ruolo senza nascondersi dietro il dito della non più possibile sostenibilità di un welfare pubblico? E vede possibili sbocchi dei movimenti che proprio questi temi pongono sul tappeto?

FRP: Una delle cause della crisi globale è stata la crescente illusione maturata nel precedente trentennio che i mercati lasciati a se stessi e liberati dai “lacci e lacciuoli” dell’intervento pubblico avrebbero assicurato una crescita elevata ed equilibrata, capace di far scorrere i rivoli della ricchezza fino ai ceti sociali più bassi.

Come già aveva dimostrato la grande crisi degli anni Trenta del secolo scorso, questa illusione si è confermata tale e con effetti ancora una volta molto dolorosi. La crisi del 1929 è stata superata solo con la Seconda guerra mondiale.

Nel successivo trentennio, la generalizzata affermazione delle politiche keynesiane ha alimentato quella che non a caso è stata definita l’età dell’oro, cioè il periodo di massimo sviluppo economico sociale nella storia dell’occidente. Questi risultati sono nati dalla collaborazione tra forze di mercato e istituzioni. La stessa teoria economica liberale ha evidenziato i cosiddetti fallimenti del mercato e la necessità di una interazione delle scelte guidate dall’interesse individuale con le politiche espressione delle esigenze collettive.

Dalla seconda metà degli anni Settanta si è andata progressivamente affermando la convergenza di interessi economico-politici e di tendenze culturali neoliberiste, unitamente agli effetti della globalizzazione dei mercati che ne hanno accresciuto il ruolo rispetto alle istituzioni rimaste operanti essenzialmente nei ristretti ambiti nazionali. La politica intesa come luogo delle scelte collettive democraticamente decise ha lasciato sempre più spazio alle scelte di pochi operate tramite i mercati. Questa involuzione è stata alimentata anche dai fallimenti degli interventi pubblici, a loro volta determinati anche da comportamenti opportunistici e atteggiamenti autoreferenziali della politica. Anche nell’ambito delle scelte istituzionali, hanno preso il sopravvento quelle operate da organi tecnici – come le Banche centrali – rispetto agli organi democraticamente rappresentativi – come i Governi e i Parlamenti. Al sopravvento dei mercati rispetto alle istituzioni si è accompagnato quello dei mercati finanziari rispetto ai mercati dei beni e servizi e quello delle politiche monetarie e finanziarie rispetto alle politiche fiscali, industriali e sociali.

La crisi sta evidenziando le gravi disfunzioni e le conseguenze negative di queste evoluzioni asimmetriche, cosicché pare ancora più contraddittorio che si pretenda di superare la crisi affidandosi alla stessa visione teorico, culturale e politica che molto ha contribuito a determinarla.

Tuttavia, questa contraddizione trova alimento nel persistere di una non ingiustificata sfiducia nella politica che porta ad accreditare il ruolo di governi e scelte “tecniche” che, cioè, non sarebbero inquinate dalle disfunzioni della politica. Siamo di fronte all’ennesimo equivoco, poiché è evidente che non esistono scelte tecniche esenti da connotazioni politiche. D’altra parte, non esistono nemmeno scelte esenti dal rispetto dei vincoli posti dalla conoscenza, che pur non essendo neutrale, comunque è regolata da vincoli tecnici che non possono essere ignorati da presunzioni politiche. Il rischio grave che abbiamo di fronte è proprio quello che persistano scelte politiche di segno conforme alla visione che ha condotto alla crisi, scelte accettate dall’opinione pubblica solo perché appaiono “tecniche”, cioè “dovute”, e immuni dai vizi della politica. Il rischio, dunque, è quello di una deriva tecnocratica a danno della democrazia, alimentata da una sfiducia nella politica che non manca di motivazioni.

Naturalmente, la politica e la democrazia non si praticano solo nelle istituzioni, ma si nutrono anche delle iniziative che nascono nella pratica sociale e in ambiti territorialmente delimitati. Sarebbe tuttavia impensabile, in un mondo globalizzato, affidare solo o prevalentemente a questo tipo d’iniziative spontanee e locali la salvaguardia delle scelte democratiche e la loro capacità d’interazione con i mercati operanti su scala internazionale.



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