Mediazione, riparazione, aiuto sociale: così la giustizia e la pena diventano umane

Mediazione, riparazione, aiuto sociale: così la giustizia e la pena diventano umane

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(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)

«Vite perse dietro a desideri impazziti ma tanto simili agli obiettivi che permeano la nostra società», è questa la realtà della prigione che don Virgilio Balducchi, attuale Ispettore Generale dei Cappellani delle carceri, ha in questi anni conosciuto e che racconta. Una situazione ormai da tempo critica, per cui non ci sono soluzioni facili. Anche i recenti interventi del governo, che certamente rappresentano un cambio di tendenza, non sono certo misure “svuota-carceri”. Sono, semmai, un banco di prova sul quale tutta la società si deve misurare. Come per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), si tratta di una occasione da cogliere per chi in questi anni si è impegnato e si impegna per una esecuzione della pena conforme al dettato costituzionale. Un’opportunità che però senza questo impegno non può dare i frutti sperati.

 

 

Redazione Diritti Globali: Don Virgilio Balducchi è dall’inizio del 2012 Ispettore generale dei cappellani delle carceri, al posto di don Giorgio Caniato, che era in carica dal 1997. Anzitutto, qual è il compito dell’Ispettore Generale dei Cappellani, e più in generale, qual è il ruolo che i cappellani svolgono oggi nelle carceri italiane?

Virgilio Balducchi: Ogni persona ha diritto a professare il proprio credo religioso, come espressione della sua dignità e della sua libertà individuale. I trattati internazionali e pure lo Stato italiano nella sua costituzione lo prevedono. Non si tratta solo di lasciare a ognuno la propria libertà di fede personale ma di permetterne anche la manifestazione pubblica e questo per il credere della Chiesa cattolica è parte integrante del propria fede. Lo Stato italiano nella Costituzione, con articolo 19, esprime il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa; con l’articolo 11 dell’accordo di revisione del Concordato Lateranense (18 febbraio 19849) ha sancito la libertà religiosa e la presenza dei cappellani anche nelle carceri. In particolare, nelle carceri sono previsti dei cappellani cattolici per l’espressione della vita di chiesa in quei contesti. L’Ispettore dei cappellani è una figura di coordinamento e di verifica della attività dei cappellani, con compito di raccordo con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e i vescovi italiani (legge 5 marzo 1963, n. 323; legge n. 68 del 4 marzo 1982; ordinamento penitenziario legge 26 luglio 1975 n. 354 e DPR 30 giugno 2000 n. 230).

L’espressione della propria religiosità è una libertà riconosciuta alla persona anche in esecuzione della pena.

Esercitare un proprio diritto mantiene un senso di appartenenza della propria identità e dignità soprattutto in luogo dove la libertà ti è negata. Questo può aiutare la persona a esprimere il distacco dall’identificazione del proprio sé con il proprio reato, favorendo il desiderio di progettazione diversa della propria vita.

In particolare, nel credente cristiano cattolico si connota come un aver fiducia in un Dio che non ti abbandona nelle difficoltà o qualsiasi reato tu abbia fatto ma come continua possibilità di riconciliazione. A ogni persona viene proposto di assumere la responsabilità del male fatto, della riparazione del danno, della disponibilità al perdono, rivolgendo parimenti a tutti i credenti cristiani la stesse indicazioni.

Questi sono valori essenziali della fede nel Dio di Gesù Cristo, rinviano tutti all’esercizio della propria libertà finalizzandola a produrre relazioni sociali positive anche dove si siano prodotte lacerazioni e sofferenze.

Il cappellano in carcere è inviato a tutti come qualsiasi altro sacerdote in una comunità parrocchiale e quindi ha il compito di promuovere e servire la comunità cristiana nel carcere, che è fatta di tutti: operatori penitenziari, persone detenute, volontari.

Ha un compito di presiedere in particolare la vita di comunità cristiana per coloro che la vivono in carcere come persone detenute, non potendo costoro partecipare fuori dal carcere alle comunità parrocchiali del loro territorio.

Per gli operatori e i volontari la comunità di riferimento rimane la parrocchia in cui vivono; in carcere vivono il loro essere cristiani in quel luogo, offrendo il loro servizio alla società e alle persone che incontrano. La comprensione di questo ruolo di servizio alla società e alle persone detenute è determinante per una corretta collaborazione fra tutti e i cristiani sono chiamati ad assumere per primi questo stile deontologico.

Con i credenti cristiani non cattolici e credenti di altre religioni si promuove un cammino ecumenico di ricerca di giustizia e pace per tutti, basato sull’accoglienza della diversità ma nel rispetto dell’identità di ciascun credo religioso e valoriale.

 

RDG: Lei è stato per oltre vent’anni cappellano nel carcere di Bergamo e ha una esperienza diretta e profonda dello stato delle nostre carceri. Qual è oggi la situazione del sistema penitenziario in Italia? Quali sono i principali elementi di criticità?

VB: In questo periodo si sente spesso parlare di emergenza carcere ma gli operatori che lavorano negli istituti sanno bene che l’emergenza è ormai quotidiana da parecchi anni. Quando penso ai volti delle persone che incontro come detenuti in carcere e alla loro situazione sociale, purtroppo mi appare l’immagine simbolica di una discarica che nemmeno riesce ha creare un decente riutilizzo del materiale riciclabile. Questa visione è degradante, se pensiamo che parliamo di uomini e di donne, ma rende l’idea di come abbondantemente scarichiamo in carcere il disagio sociale e pensiamo così di toglierlo dalla nostra visuale e rendere più sicure e pulite le nostre città. Non si tratta quindi di risolvere o rendere meno frequenti i dati di criticità, ma di compiere una svolta culturale che cambi il modo di amministrare la giustizia, scegliere finalmente il carcere come l’ultima delle risorse per intervenire nella prevenzione dei reati e per creare sicurezza sociale.

Da subito basterebbe applicare maggiormente le misure di esecuzione della pena sul territorio, già da ora definite nella legge della 1975 e successive modifiche applicative. Nel contempo, fermiamo e diciamo basta a leggi che, a ogni problema di illegalità o di nuovi allarmismi sociali, prospettino pena e carcere; scorciatoie rispetto al gravoso ma dignitoso lavoro politico di costruire una società che vive il dettato costituzionale del dovere della solidarietà (Articolo 2 della Costituzione Italiana).

 

RDG: Dal 1991 al 2011 i detenuti stranieri sono passati dal 15% circa della popolazione detenuta a oltre il 36%. Come ha influito questo sulla vita negli istituti e, più in generale, come sono cambiate le carceri da quando lei ha iniziato a frequentarle?

VB: Minor qualità di vita più rischio di finire nelle patrie galere: mi sembra questo il tracciato di fondo che percorre i fenomeni di illegalità che coinvolgono la maggior parte delle persone detenute, per questo più immigrazione, più tossicodipendenza, più malattia mentale, più desiderio di possedere cose e persone corrispondono a più carcere.

Non è una questione di causa ed effetto ma di una sinergia negativa sociale in cui le note del concerto della convivenza suonano da una parte musiche che ti indicano la felicità nel tuo maggior benessere personale come il massimo della realizzazione, ma si accompagnano a marce funebri laddove ti trovi in situazione di svantaggio.

Il carcere appare allora come il luogo infernale in cui il male si combina con la povertà, come luogo e destino finale della non riuscita sociale.

Vite perse dietro a desideri impazziti ma tanto simili agli obiettivi che permeano la nostra società, molto legata al fruire la vita e poco a gustarla come responsabilità nella costruzione del miglior bene comune possibile. In carcere i vissuti quotidiani riflettono lo stesso fenomeno, la solidarietà di base è faticosa, è controcorrente, le diverse culture sono a rischio di conflittualità. Gli stranieri si sentono defraudati rispetto agli italiani, gli italiani pensano che starebbero meglio senza gli stranieri. La solidarietà di base permane ma è più faticosa, richiede un di più motivazionale. In un contesto di depauperamento generalizzato diventa più difficile anche la promozione di strategie di sopravvivenza e di difesa dei diritti comuni. Per questo, più di ieri, è necessario che la società civile sia presente nelle nostre carceri per renderle il più trasparente possibile e per costruire percorsi corresponsabilità civile.

Oggi più di ieri la protesta è singola, vedi i numerosi atti di autolesionismo. Se produce azioni comuni è molto gridata, ma spesso vissuta da molti come poco utile perché porta quasi sempre a maggiori svantaggi personali e di gruppo. D’altro canto laddove l’impostazione dell’istituto chiama a prendere maggiormente delle responsabilità condivise il clima cambia, pensiamo alle carceri dove effettivamente si lavora o si studia, la qualità della vita cambia. Per esperienza personale ho visto gli stranieri frequentanti i corsi scolastici richiedere meno i farmaci per contrastare la diffusa depressione carceraria.

Il confronto obbligato tra culture diverse crea positivamente una domanda sulla propria identità e apre a una migliore comprensione e valorizzazione, così mentre si possono aprire derive di conflittualità anche molto pesante, si crea uno spazio positivo di comprensione di se stessi e di rispetto che non solo è preteso per sé, ma è rispettato per altri diversi da sé. Nel vissuto della propria appartenenza religiosa in questi anni è cresciuta la richiesta di approfondimento della propria fede, proprio a partire dalla compresenza di altre fedi religiose.

A partire dal miscuglio culturale alcuni operatori hanno ipotizzato il carcere come un possibile laboratorio di convivenza. Quest’affermazione mi appare vera nel suo enunciato ma ad alto rischio di deflagrazione se non s’innescano percorsi di accoglienza reciproca, a cominciare dal come gestire la presenza nelle celle, al come rendere fruibili per tutti percorsi di scolarizzazione, di lavoro e di alternative al carcere.

 

RDG: Tra i primi atti posti in essere dal nuovo governo, e dal ministro della Giustizia Paola Severino, c’è il decreto legge con gli “Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri”. Che cosa pensa di questo intervento, sia per il suo possibile impatto sulle carceri sia per quello sugli OPG?

VB: Qualsiasi proposta che favorisca un modello di esecuzione di pena non fra le mura del carcere trova tutti i cappellani pienamente d’accordo e impegnati a offrire alle comunità cristiane proposte e progetti che facilitino la socializzazione e la riconciliazione. Finalmente si ricomincia non solo a riparlarne ma a prendere decisioni politiche che rendono possibile la volontà di accogliere e non solo di segregare le persone che hanno commesso illegalità. È un po’ di ossigeno per un malato che arranca e fa fatica a respirare. Come sanno bene le persone che l’hanno proposto, non si tratta di una soluzione radicale al sovraffollamento né tanto meno uno “svuota-carceri”. Si tratta di un intervento che spero inizi un percorso di cambiamento nell’amministrazione della giustizia. Lo vedo come un banco di prova per sviluppare altre azioni di rappacificazione sociale. L’esito positivo dipende da tutti, operatori della giustizia, persone detenute o sottoposte ad altre misure restrittive, servizi sociali dei territori, Terzo settore e comunità civili ed ecclesiali. Funzionerà se ciascuno accetterà la sfida e si adopererà in sinergia con gli altri, non si tratta semplicemente di mettere fuori o di non far entrare in carcere ma di riprogettare, di favorire l’incontro di persone che liberamente scelgono il bene comune come anche il meglio per sé. Credo che per lo Stato sia doveroso proporre ai propri cittadini azioni che vanno in tal senso, per la Chiesa corrisponde meglio al dettato di comunione che ha ricevuto dal suo Signore.

Un banco di prova di alto valore sociale sarà la chiusura degli Opg. Curare castigando non vale in genere per gli adulti in carcere, tanto meno per le persone che lo Stato stesso ha definito incapaci di intendere e volere. Le paure che alcuni paventano dobbiamo coglierle come sfida alla nostra capacità di accompagnamento sul territorio delle persone e diffondere luoghi e percorsi d’integrazione, che già esistono e funzionano con risultati positivi, bisognerà vigilare, pur con le dovute attenzioni per le situazioni più gravi, perché non si creino strutture che hanno come priorità il contenimento e la segregazione.

In generale, sembra che almeno per quanto riguarda gli operatori penitenziari, unitamente ai responsabili del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria vi sia una consapevolezza che l’emergenza carceri non sia più tollerabile. L’impegno posto, in questi anni, sulla formazione e qualificazione della polizia penitenziaria rende più favorevole un piano di lavoro che mira alla realizzazione del dettato costituzionale: la pena deve tendere alla rieducazione.

 

RDG: Qualunque sia il giudizio che si vuol dare del decreto governativo, resta il fatto che l’unico atto ad avere effetti realmente immediati sulla condizione di vivibilità degli istituti sarebbe una amnistia. Qual è la sua opinione in generale su questo istituto, a cui da noi si è spesso fatto ricorso in passato in situazioni analoghe all’attuale, e cosa pensa in particolare della possibilità e dell’opportunità di farvi ricorso oggi?

VB: Il carcere, così come si presenta oggi, è stato definito dal Santo Padre Benedetto XVI una doppia pena; una pena suppletiva che non ha niente a che fare con la giustizia, ma è atto d’ingiustizia. Per questo ritengo che un’amnistia, nella situazione attuale, sarebbe semplicemente un atto di giustizia più che una concessione di benevolenza dello Stato o semplicemente intervento per migliorare la vivibilità nelle carceri. Non penso che potrà portare a effetti duraturi se non si accompagnerà alla riforma del codice penale che veda nel carcere l’ultima delle soluzioni per interrompere i fenomeni dell’illegalità. Se è vero, come dicono la maggior parte di coloro che conoscono le persone che sono detenute nelle carceri, che siamo di fronte, nella maggior parte dei casi, a gente che vive disagi sociali, la risposta va cercata altrove.

Maggior intervento di aiuto sociale e di crescita di coesione territoriale, pene alternative alla detenzione, lavori socialmente utili per riparare all’illegalità commessa, percorsi di mediazione penale sono azioni che renderanno duraturo l’effetto di provvedimenti per abbattere l’emergenza carceri. Bisogna pensare all’amministrazione di una giustizia in divenire che rende possibile la ricostruzione dei legami strappati, che a partire dal rendere giustizia alle vittime proponga a chi ha commesso ingiustizia il dovere di cambiare e di riparare.

Ciò comporta l’impegno a rendere possibile la riconciliazione come elemento basilare per amministrare la giustizia, usando strumenti di mediazione prima, durante e dopo la definizione della pena. Molti reati sono commessi in stato di bisogno sociale e quindi, per dare a tutti la stesse possibilità di riparazione, non è sufficiente fare le riforme suddette ma è necessario renderle fruibili anche a chi non ha risorse.

Compiere giustizia è la responsabilità condivisa di affrontare il male che accade, senza la scorciatoia del semplice dare una pena. Spero che il termine stesso pena sia meno usato, ma che riparazione, riconciliazione, responsabilità del male commesso, mediazione, pacificazione sociale culturalmente e operativamente siano le parole chiave vincenti.



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