Nuovi governi, vecchie ricette. Il welfare è un diritto

Nuovi governi, vecchie ricette. Il welfare è un diritto

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(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)

 

Chi si occupa dei più fragili e dei più poveri ha tirato un respiro di sollievo quando ha registrato alcune discontinuità tra il governo Monti e quello Berlusconi, soprattutto il “congelamento” della legge di riforma dell’assistenza, che avrebbe ulteriormente saccheggiato il welfare con l’obiettivo di ricavarne 20 miliardi per pareggiare il bilancio dello Stato. Tuttavia, la macropolitica del nuovo governo non si discosta di molto dall’epoca precedente, la logica è pur sempre quella dei tagli e di un welfare visto come costo da contenere. E la ricetta liberista non ha dato spazio a misure di vera lotta alle diseguaglianze e di redistribuzione della ricchezza. Anche su politiche di settore, come le tossicodipendenze e la lotta all’AIDS, poco si muove, non sembrano essere nell’agenda politica del governo. Al contempo, però, una nuova sensibilità sociale sembra entrare in scena: meno paure e meno “nemici” e più consapevolezza che il nodo sta nel lavoro, nei diritti, in una società solidale, in un modello di sviluppo più attento alla qualità della vita. Campagne come quella sull’acqua pubblica o quella per il diritto alla nazionalità dei giovani stranieri nati in Italia hanno visto una grande e convinta partecipazione. Segno che è giunta l’ora, anche per il Terzo settore, di puntare a una più vasta capacità di rapporto e di dialogo con più ampi strati sociali. Di questo parliamo con Armando Zappolini, presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA) dal gennaio 2011, attivo nella cooperazione internazionale nel Sud del mondo e in Libera, associazione contro le mafie.

 

Redazione Diritti Globali: Si è chiusa l’era Berlusconi e si è aperta quella del “Governo dei tecnici”. La prima ha lasciato molte macerie, per quanto attiene il welfare: tagli clamorosi, inconsistenza programmatica, un’idea di sussidiarietà che in realtà implica la deresponsabilizzazione pubblica e una retorica da nuova beneficienza. Nel Libro Nero sul Welfare italiano, il cartello della campagna “I diritti alzano la voce” – di cui il CNCA è promotore – analizza puntualmente gli esiti della politica berlusconiana: quelli delle manovre economiche del 2011 ma anche quelli potenziali del disegno di legge C. 4566, che avrebbe dovuto ridefinire il sistema fiscale e assistenziale. Si tratta non solo di riduzione dei servizi e tagli ai sostegni economici alle persone in difficoltà, ma anche di un regime fiscale penalizzante per i più fragili, fatto di revisione selettiva dell’ISEE e di restrizione nelle agevolazioni fiscali e nelle esenzioni per le fasce deboli. Su questo avete chiesto con forza al governo Monti una discontinuità e un’inversione di tendenza. Che giudizio dai, su questo piano, dopo i primi mesi di governo tecnico e dopo le prime manovre?

Armando Zappolini: È vero, il tempo di Berlusconi sembrerebbe finito. Ma i danni che ha provocato li sconteremo a lungo, non solo per quello che ha fatto, e che non ha fatto, ma anche per i modelli di valore, gli stili di vita che ha impersonato come nessun altro. Non c’è dubbio che la situazione sia cambiata. Quando oggi incontriamo un ministro o un sottosegretario, in genere, ci troviamo davanti qualcuno che sa di cosa stiamo parlando… Tuttavia, abbiamo detto e scritto più volte che l’impostazione che orienta il governo in carica rimane, a nostro avviso, del tutto inadeguata. Il programma che sta attuando metterà forse in sicurezza i conti dello Stato, ma non produrrà lavoro e sviluppo. L’idea che lo guida – in ossequio ai diktat della troika che ora dirige i destini del continente – è che abbattendo la spesa pubblica “improduttiva” (tra cui rientrerebbe anche quella sociale, vedi le pensioni) e tenendo bassi i salari e aumentando la flessibilità del lavoro, il sistema economico italiano ripartirà. Un approccio dunque neoliberista, che si è già dimostrato fallimentare negli ultimi dieci anni. Si continua a non capire che occorre una svolta, che il welfare, l’educazione, la cultura, l’ambiente possono essere il volano per aumentare il benessere sociale e accrescere la ricchezza. Questa miopia ha portato ai tagli ad alcune agevolazioni fiscali, a una revisione dell’Isee che potrebbe penalizzare fortemente i più deboli, e le persone disabili in particolare, a prevedere un aumento dell’Iva che – è bene ribadirlo – colpisce di più, in proporzione, i meno abbienti. Il governo ha sì disinnescato la bomba della riforma fiscale e assistenziale prevista nel disegno di legge n. 4566 – con il suo folle proposito di tirar fuori 20 miliardi dalla spesa sociale! – ma ha ribadito che soldi per le politiche sociali non ce ne sono. Dunque, si andrà avanti nei prossimi due anni con le briciole che il governo Berlusconi ha gentilmente concesso e con quello che Regioni ed enti locali – anch’essi in grave crisi finanziaria – riusciranno a stanziare. È ormai chiaro che non solo non si va avanti, ma che il perimetro stesso delle tutele sociali si sta riducendo in modo significativo e pericoloso.

 

RDG: La “triade” rigore, crescita ed equità del governo Monti ti ha deluso: hai dichiarato che, alla fin fine, pagano sempre gli stessi. Nelle vostre proposte emerge con forza e forse con più radicalità di prima la necessità di incidere sull’accumulo diseguale di ricchezza, che in Italia è particolarmente significativo, come dimostra la comparazione con altri Stati europei. Una più equa e progressiva tassazione che non lasci fuori rendite, patrimoni e transazioni finanziarie è anche uno degli obiettivi del grande e variegato movimento globale che dagli Indignados a Occupy Wall Street si sta misurando con le risposte liberiste alla crisi. Come si colloca il Terzo Settore italiano che tu rappresenti dentro a questa “onda” di critica alla ricchezza mal distribuita? Quali pensi siano le proposte e gli strumenti più importanti da sostenere nell’ambito della lotta alle diseguaglianze?

AZ: La questione della disuguaglianza è cruciale. Ne parlano perfino i grandi mezzi di comunicazione nazionali e internazionali, “Financial Times” in testa. È la disuguaglianza dei redditi che ha portato alla crisi. Ci sono poche persone che hanno troppi soldi, per le quali la finanza ha creato sbocchi estremamente redditizi, senza dover investire nella produzione e nel lavoro. E troppe persone che hanno poco, e che sono state spinte a indebitarsi per continuare a sostenere i consumi. Finché il meccanismo non è scoppiato. Ma vogliamo prendere atto che così non si può andare avanti? Al contrario di quello che molti credono, l’Italia è ai vertici della disuguaglianza sia tra i Paesi dell’Unione europea sia tra i Paesi Ocse. Ed è questo, non un rigurgito di vetero-socialismo, a giustificare la patrimoniale, gli interventi sulle rendite e sulle transazioni finanziarie. È giusto che chi ha di più – e che spesso ha accumulato ricchezza grazie a regimi di favore, vedi la tassazione sugli investimenti finanziari o sulle compravendite immobiliari – paghi di più, soprattutto quando il Paese è sull’orlo del baratro. Invece, l’azione del governo, finora, ha colpito maggiormente il lavoro dipendente e i pensionati. Forte con i deboli, mentre sulle liberalizzazioni – dove sono in gioco gli interessi di corporazioni robuste – i passi indietro sono stati parecchi. Anche la tassazione sulla ricchezza mobiliare – una mini-patrimoniale – è stata, a nostro avviso, iniqua: la progressività, inizialmente nemmeno prevista, è davvero risibile.

Dinanzi a un impoverimento crescente e a inadeguatezze ed errori degli ultimi governi, dobbiamo dirci che il Terzo settore non è stato all’altezza. Fatichiamo a essere un catalizzatore di proposte e azioni riconosciuto dall’opinione pubblica, un punto di riferimento forte e autorevole, anche se i risultati della campagna “L’Italia sono anch’io” ci danno speranza. Restiamo compressi tra le tante azioni quotidiane di aiuto che portiamo avanti sui territori, spesso anche ben fatte, e le fatiche – a volte le frustrazioni – di un’interlocuzione con le istituzioni ai vari livelli. Non abbiamo avuto un Occupy Piazza Affari (anche se ora se ne parla, ma non basta organizzare un sit in un luogo simbolico…) o un movimento simile a quello degli Indignados spagnoli. Ed è invece questo lo “strumento” cruciale per la riduzione delle disuguaglianze: creare un’opinione pubblica forte e consapevole che chiede maggiore giustizia sociale, maggiore equità, un nuovo modello di sviluppo.

 

RDG: Intanto, mentre la politica vara i suoi programmi ad alto rischio di iniquità, la società civile comunque non si ferma. Accanto alle risposte regressive alla crisi, quelle fatte di chiusure, paura e razzismi, nel corso dell’ultimo anno si sono moltiplicate iniziative che dicono di ampi strati sociali dove vince – al contrario – l’idea che una società aperta al contributo di tutti e capace di promuovere convivenza e coesione sarà più capace di reagire. L’attenzione e il sostegno che ha avuto, proprio in tempi di crisi, la campagna “L’Italia sono anch’io” per la cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia è la prova che esiste un’Italia che sa immaginare con buon senso un futuro possibile. La tua iniziativa “firma per far diventare Gesù cittadino italiano!” ha dato fastidio a qualcuno ma è piaciuto a molti. Che prospettiva vedi, per la promozione di questi diritti? E che giudizio dai del “senso comune” cresciuto attorno a questi temi nel nostro Paese?

AZ: Dobbiamo essere ottimisti. Sapendo, però, che gli stranieri – e il fenomeno dell’immigrazione – sono sempre esposti a campagne politiche e di stampa negative, a cui si ricorre ciclicamente per incassare un consenso politico tanto facile quanto letale per la democrazia (oltre che per le stesse persone straniere). L’Istituto Demos di Ilvo Diamanti ha mostrato che la paura dello straniero dipende fortemente dai media, dalla quantità di articoli e servizi che realizzano e dal modo in cui trattano il fenomeno. Qualche anno fa, non dimentichiamolo, abbiamo dovuto affrontare una vera emergenza: non quella degli stranieri, ma quella creata da testate giornalistiche (comprese il “Corriere della Sera” e “la Repubblica”) e da politici contro gli immigrati, le prostitute, i senza dimora, i rom, i mendicanti, i venditori ambulanti, i writers, contro tutto quello che sta ai margini.

La crisi economica ha invece imposto nuovi temi: l’impoverimento crescente, la perdita dell’occupazione, il lavoro che non c’è per i giovani, l’aumento del costo della vita. Un cambiamento nel “clima di opinione”, come lo chiama proprio Diamanti, che ha portato con sé una crescita, nel sentire comune, dei valori della solidarietà, della giustizia, dei beni comuni e pubblici. Abbiamo avuto il successo dei referendum e ora lo straordinario risultato della campagna “L’Italia sono anch’io”: oltre 100.000 firme in favore dei diritti di cittadinanza delle persone straniere. Mille di queste firme le abbiamo raccolte a Perignano, dov’è la mia parrocchia. Lo scorso Natale abbiamo allestito un presepe dedicato proprio ai tanti bambini e ragazzi nati in Italia, o arrivati da noi piccolissimi, a cui viene ingiustamente negata la cittadinanza: anche Gesù sarebbe ora uno straniero senza diritti. A un’organizzazione di estrema destra pisana l’iniziativa non è piaciuta. Avendo richiamato loro i valori cristiani, ho risposto dicendo che probabilmente non ascoltano i discorsi del Papa. È questo che dobbiamo fare: rafforzare nelle comunità dove viviamo e operiamo i valori di solidarietà e fratellanza, raccogliere queste nuove domande sociali, che sono perfettamente in linea con quello che il Terzo settore migliore propone da anni. Dobbiamo parlare di più al “centro” della società, continuando a fare la nostra parte ai margini.

 

RDG: A proposito di discontinuità Berlusconi-Monti, uno dei campi in cui più ce ne sarebbe bisogno è quello delle droghe, in cui l’approccio criminalizzante del governo di centrodestra ha creato esiti drammatici, su cui si sono poi innestati i tagli alla risorse e non ultima una cultura patologizzante che ha impedito di progredire nelle politiche sociali e di riduzione del danno e del rischio. Stante la sua agenda, è credibile che il governo dei tecnici non intenda occuparsene più di tanto e nemmeno con urgenza, anche se il nodo delle carceri – di cui la popolazione tossicodipendente è una variabile fondamentale – dovrebbe suggerire uno sguardo più strategico. In ogni modo, un segnale di discontinuità c’è stato, l’affidare le dipendenze al ministro Andrea Riccardi, riportandole nell’alveo delle politiche sociali più che in quello dell’ordine e della repressione. Per una discontinuità operata, c’è però una continuità che permane: la delega tecnica continua a essere in capo a Giovanni Serpelloni, la cui gestione ha fortemente connotato le politiche del governo precedente. Insomma, difficile pensare che Serpelloni possa essere uomo per tutte le stagioni, sempre che le stagioni cambino… Come vedi l’evolversi di questa situazione e quali sono gli obiettivi su cui a tuo avviso è importante puntare, alla ricerca della tanto attesa discontinuità?

AZ: L’uscita di scena di Carlo Giovanardi ha sicuramente rappresentato un passaggio positivo, che come CNCA abbiamo subito salutato con soddisfazione: i danni dell’approccio ideologico al tema delle dipendenze e delle droghe li soffriamo, infatti, da anni e soprattutto li hanno sofferti coloro che per la droga sono finiti in carcere o non hanno trovato adeguati servizi di cura. Le aspettative, però, si sono parzialmente infrante anche in questo caso davanti all’atteggiamento del nuovo governo, che non ha finora posto questi temi nella propria agenda. Di droga e marginalità non ci si vuole occupare, la pesante situazione di tutto il sistema dei servizi pubblico e privato non viene posta con l’urgenza che meriterebbe. La discontinuità rispetto all’approccio securitario e ideologico che ha caratterizzato la politica del governo Berlusconi è evidente, ma gli effetti positivi ancora non si vedono. Bisogna rimettere l’Italia in sintonia con l’Europa e, soprattutto, collegare le scelte di intervento alle evidenze scientifiche e alla lettura della realtà, come sarebbe normale attendersi da un esecutivo “tecnico”.

Invece, sembra che questo governo investa la propria competenza “tecnica” soltanto, e con disinvoltura, nel campo economico, facendo pagare sempre gli stessi e senza toccare le grandi ricchezze, mentre sul piano sociale non riesce a dare nessun segnale di discontinuità. Il senso di abbandono sta sempre più crescendo nel Paese, soprattutto in quelle fasce marginali e più in sofferenza in cui spesso rientrano le persone con dipendenze patologiche o consumi problematici. Dobbiamo continuare a tenere vivo il problema, rafforzando le reti con le quali abbiamo contrastato in questi anni il populismo becero del governo Berlusconi: è infatti cambiata la forma, ma per ora non la sostanza!

 

RDG: Nel 2011, grazie all’associazionismo, si è riparlato di AIDS: tema “dimenticato” su cui invece il Forum della Società Civile Italiana sull’HIV/AIDS ha riacceso l’attenzione, perché le cose non vanno come sarebbe auspicabile nemmeno qui. Il documento di analisi e denuncia elaborato dal Forum parla di carenze inaccettabili sul piano programmatico, delle risorse, delle strategie e degli assetti socio-sanitari. Per non parlare dei diritti e del rispetto per le persone affette da HIV/AIDS, la cui stigmatizzazione è ben lontana dall’essere superata. Sei d’accordo su questa priorità? E quali interventi pensi siano più urgenti?

AZ: Grazie per aver ricordato l’azione di denuncia svolta dal Forum della Società Civile Italiana sull’HIV/AIDS (www.forumhivaids.it) attraverso la “Dichiarazione di Roma” (www.dichiarazionediroma.it), stilata dallo stesso Forum il 12 luglio 2011 e sottoscritta da oltre 100 associazioni. Siamo preoccupati per la paralisi delle istituzioni in questo settore, per motivi incomprensibili. Le evidenze scientifiche ci dicono che gli indicatori per una lotta efficace all’HIV/AIDS riguardano soprattutto le politiche di prevenzione, il superamento dello stigma, il rispetto della privacy, l’accesso ai farmaci e alla diagnostica, le politiche antidroga, la ricerca scientifica e l’impegno internazionale nella lotta contro l’AIDS. Purtroppo, a oggi, si registra una forte immobilità soprattutto per quanto riguarda le politiche di prevenzione. Eppure, anche quest’anno l’Istituto Superiore di Sanità, nel presentare i dati nazionali su HIV/AIDS, ha ricordato che oltre un terzo delle persone che si scoprono affette da HIV riceve la diagnosi in fase avanzata di malattia, e dunque già con un rilevante danno al sistema immunitario; che dal 1996 a oggi ben due terzi delle persone diagnosticate con AIDS non hanno effettuato alcuna terapia antiretrovirale prima di tale diagnosi; che la maggioranza delle nuove infezioni è attribuibile a contatti sessuali non protetti, che costituiscono l’80,7% di tutte le segnalazioni. E, tuttavia, a oggi non sono state avviate campagne incisive di promozione all’uso del profilattico.

Il Fondo Globale per la Lotta contro l’AIDS, la Tubercolosi e la Malaria ha annunciato, alla fine dello scorso anno, lo stop a nuovi progetti per i prossimi due anni a causa della diminuzione del sostegno finanziario, e la garanzia dei soli servizi essenziali per quelli già in corso. Eppure, i risultati dell’estensione dell’accesso alle terapie sono positivi, come evidenzia l’ultimo Rapporto dell’Unaids, l’agenzia Onu che promuove e coordina la politica internazionale per la lotta all’AIDS. Quanto al nostro Paese, l’Italia non ha ancora onorato quanto promesso più volte al Fondo Globale, al quale ha addirittura sospeso ogni contributo dal 2009. C’è dunque bisogno di azioni immediate. L’Unaids ha appena lanciato lo slogan Getting to Zero: un impegno rivolto ai governi del mondo e a tutti per arrivare a “zero nuove infezioni da HIV, zero discriminazioni e zero morti dovute ad AIDS”. L’obiettivo dovrebbe essere raggiunto entro il 2015. Chi, come noi, da trent’anni lotta contro l’HIV, pensa che ciò non sia utopia: con le conoscenze attuali, con la scelta di alcune priorità, con un impegno politico ed economico adeguato, è possibile arrivare a zero.

Il nodo più delicato – ribadisco – riguarda la prevenzione: i nuovi prodotti farmaceutici hanno aumentato la sopravvivenza, ma non esiste un farmaco capace di distruggere l’agente infettivo, dunque il virus è destinato a diffondersi se non si interviene con campagne preventive adeguate. Eppure questo semplice principio di sanità pubblica è stato ampiamente disatteso dai vari ministri della Sanità che si sono succeduti nel tempo. Inoltre, investire nella prevenzione significherebbe un notevole risparmio per la spesa pubblica, visto che le cure, destinate a durare tutta la vita, sono assai costose. Diminuirebbero forse i profitti delle case farmaceutiche, ma di sicuro migliorerebbe la salute dei cittadini e delle cittadine. Il Forum della Società civile italiana sull’HIV/AIDS – e il CNCA che è tra i promotori di questa rete – continueranno a porre le loro domande e a monitorare l’attività di questo nuovo governo.



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