Nuovo welfare o ritorno all’Ottocento?
Un’intervista alla sociologa Chiara Saraceno, a cura di Susanna Ronconi (dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)
L’Italia è, insieme alla Grecia, il solo Paese comunitario a non prevedere una qualche forma di Reddito minimo, e anche la recente ripresa del dibattito attorno alla necessità di rivedere tutto il sistema degli ammortizzatori sociali, da un lato, e delle strategie di lotta a una povertà crescente, dall’altro, non sembra aver posto all’ordine del giorno questa misura. Insieme, il rilancio della social card, sebbene accessibile da più ampie tipologie di cittadini e potenziata, non appare certamente adeguata a far fronte alle nuove forme di impoverimento e esclusione. Su questi temi abbiamo chiesto un approfondimento e una valutazione a Chiara Saraceno, sociologa, esperta in politiche della famiglia e del welfare, docente di Sociologia della Famiglia presso la facoltà di scienze politiche all’Università di Torino fino al 2008, già presidente della Commissione nazionale lotta alla povertà.
Redazione Diritti Globali: Lei è più volte intervenuta sulla arretratezza dell’Italia, nel panorama europeo, attorno a misure di lotta alla povertà e sostegno al reddito, denunciando la storica mancanza di una misura improntata a un “universalismo selettivo” capace di sostenere individui e famiglie al di fuori di un ancoraggio stretto alle diverse categorie occupazionali. Attorno a una forma di Reddito minimo durante il governo Letta, la Commissione ad hoc indetta dal ministro Enrico Giovannini non è arrivata alla meta e oggi il primo ministro Matteo Renzi, con il Job Act, sembra riferirsi ancora a forme di ammortizzatori comunque legati a una posizione occupazionale. Che giudizio dà del dibattito apertosi con il nuovo governo?
Chiara Saraceno: Nel disegno di legge sul lavoro non si parla affatto di Reddito minimo (REISS, Reddito di Inclusione Sociale attiva o SIA, Sostegno di Inclusione Attiva o con qualche altro nome). L’unica menzione che ho trovato all’assistenza economica è il comma che dice che per accedere all’assistenza (quale? data da chi? a quali condizioni?) non occorre lo status di disoccupato. Comma molto, molto misterioso. Ho poi sentito il ministro Giuliano Poletti affermare, come si trattasse di una novità sconvolgente e non di un ritorno all’Ottocento, che al disoccupato che chiederà aiuto per pagare l’affitto (posto che lo trovi, dato che non c’è nessuna norma né finanziamento che garantisca questo aiuto), sarà chiesto in cambio di prestare qualche attività lavorativa a favore della collettività. Con il rischio che il “volontariato obbligatorio” degli assistiti riduca la domanda di lavoro formale.
RDG: A parte i sostenitori di un Reddito di cittadinanza tout court, che propongono una misura seccamente universalista, tutte le ipotesi di Reddito minimo si inseriscono in un approccio di workfare, ancorando l’accesso al sostegno economico e la sua durata al reperimento di una occupazione e alla partecipazione a percorsi formativi. Ma qual è lo scenario che si immagina stare alle spalle di questi processi di attivazione, nel momento in cui una eventuale ripresa rischia di connotarsi come “sviluppo senza occupazione”? Non c’è il rischio di disegnare un sistema destinato a selezionare e includere non tanto sulla base della volontà e dell’impegno del singolo, ma su quella più oggettiva di un contesto che “non fa spazio” comunque a chi è più fragile e meno “competitivo”? In altri termini, se di workfare si tratta, quale può essere, indicativamente, un sistema di garanzie mirato a non esporre, o a non esporre eccessivamente, al rischio della “roulette” di un mercato del lavoro escludente?
CS: Più che workfare dovrebbe trattarsi di welfare to work, ovvero accompagnamento verso un lavoro remunerato in grado di garantire autonomia economica. Ma questo non dovrebbe essere l’unico, e forse in alcuni casi neppure il principale, obiettivo di un sostegno economico per chi si trova in povertà. Il principale obiettivo è, a livello immediato, il sostegno al consumo dei beni necessari. La formazione, la consulenza, tutte le attività di accompagnamento, sono integrazioni del sostegno al consumo in una prospettiva di medio-lungo periodo, per favorire l’autonomizzazione dall’assistenza là dove se ne danno le condizioni obiettive (nel mercato del lavoro) ed eventualmente evitare forme di parassitismo (che tuttavia non sono la norma, come sembra suggerire certa retorica, bensì l’eccezione tra i poveri). Per altro, si dovrebbe tenere conto anche del fatto che in alcuni casi, e soprattutto in fasi economiche difficili, qualcuno non ce la farà a entrare e rimanere nel mercato del lavoro, senza per questo perdere il diritto a un livello di consumo e di integrazione sociale decente. Sono d’accordo con chi fa notare che il mantra dell’attivazione è paradossalmente diretto a chi ha più difficoltà, spostando la responsabilità della povertà sui poveri stessi e sui più fragili tra loro. Occorrerebbe considerare che vi sono persone in povertà che hanno bisogno solo di un sostegno al reddito, perché si attivano già da sé e obbligarle a fare qualche cosa d’altro potrebbe ridurre, anziché ampliare le loro chances di uscire dalla povertà; ce ne sono altre che hanno bisogno di qualche spinta, ma anche di qualche risorsa (di consulenza, di formazione, di servizi) in più; e altre ancora che possono essere rafforzate nelle loro capacità lavorative solo fino a un certo punto, ma possono invece essere rafforzate nelle loro reti sociali.
RDG: Ancora sul Reddito minimo e sui criteri di accesso: individui o famiglie? Centrare sulla famiglia appare da un lato importante e urgente – anche se si consideri la pochezza delle politiche sociali e delle risorse a essa dedicate in Italia – dall’altro meno oneroso per le casse dello Stato. Tuttavia, c’è in questa alternativa anche una questione di diritti: se ci si basa sul reddito familiare per l’accesso alla misura, non c’è il rischio di penalizzare figure che, di contro, avrebbero bisogno di una prospettiva verso una personale autodeterminazione? Per esempio: un giovane con un padre che lavora, che è incluso nel nucleo familiare ma che non ha reddito personale e non può avviare la sua vita in autonomia, o una donna che regge la famiglia con il suo lavoro domestico ma non ha un euro suo in tasca. Non si rischiano soluzioni “tecniche” che alla fine tecniche non sono, ma vanno a incidere sulle prospettive di vita delle persone singole?
CS: La questione è malposta, a mio parere. In tutti i sistemi di reddito minimo il reddito di riferimento è familiare, ovvero si tiene conto, da un lato, di tutti i redditi che entrano in una famiglia; dall’altro, del numero di persone che quel reddito condividono in quanto vivono sotto lo stesso tetto e sono legati da vincoli di solidarietà e corresponsabilità. Per questo si parla di reddito – familiare o individuale – disponibile. Se uno vive da solo, ovviamente è solo il suo reddito che conta. La questione è indubbiamente complicata quando a condividere il reddito sono più adulti. In linea teorica si potrebbe pensare di erogare a ciascuno la quota parte individuale calcolata in base al reddito familiare disponibile. Ma facendo ciò non si terrebbe conto che la maggior parte delle spese, in generale, ma soprattutto nelle famiglie più povere, sono comuni: affitto, utenze, anche l’alimentazione. Se si dividesse in quota parte, come garantire che ciascuno si faccia carico anche delle spese comuni? Per altro, diamo per scontato che nelle famiglie non povere il reddito venga redistribuito ai vari componenti in base al bisogno (ciò che non sempre succede). Perché dovremmo pensare che ciò non avvenga nelle famiglie povere assistite? Essenziale è individuare nella famiglia la persona che dà più garanzie che il reddito venga utilizzato e redistribuito secondo i bisogni. Ciò che è importante, soprattutto, è che l’individualizzazione avvenga a livello delle misure di accompagnamento e attivazione, in modo che tutti i componenti della famiglia, inclusi i minori, ricevano sostegno per il pieno sviluppo delle proprie capacità, quindi anche per l’autonomizzazione dalla famiglia se lo desiderano. Molti sostenitori dell’individualizzazione del sostegno al reddito non mettono a fuoco questo, che mi sembra invece l’aspetto cruciale per le possibilità di valorizzazione delle capacità e autonomizzazione nel medio-lungo periodo.
Un ulteriore chiarimento: dire che ci si riferisce al reddito familiare non significa automaticamente che hanno diritto al reddito solo le famiglie composte da più di una persona e tanto meno solo le famiglie con figli, o solo le famiglie di coppia eterosessuale. È solo un riferimento alla unità anagrafica rispetto alla quale calcolare il reddito disponibile e l’ammontare dell’integrazione. È vero che la nuova carta acquisti cosiddetta sperimentale è destinata solo alle famiglie con figli minori. Ma la carta acquisti è una misura categoriale, non diretta a tutti i poveri e neppure a tutte le famiglie con minori povere, date le ulteriori qualificazioni richieste. La scelta categoriale è stata effettuata per mancanza di risorse. Ma si tratta, appunto, di una scelta categoriale, purtroppo. La Commissione che aveva lavorato alla proposta di SIA aveva indicato una strada diversa, che il governo, i partiti che lo sostenevano, i sindacati, non hanno per varie ragioni accettato. Non so neppure che cosa sarà ora della sperimentazione.
RDG: molte delle forme di Reddito minimo in vigore in Europa contemplano contributi non elevati, comunque certamente non bastanti a garantire la sopravvivenza, i 400 euro in media erogati in Germania non si distanziano poi molto dal massimo che si può erogare oggi in Italia grazie alla nuova carta acquisti. La differenza, tuttavia, la fanno i diversi contributi che integrano la disponibilità di un reddito in contanti: accesso alla casa e/o sostegno all’affitto, servizi efficienti di sostegno al nucleo familiare, all’infanzia e via elencando. Da noi, si sa, il livello, quantitativo e qualitativo dei servizi erogati ai cittadini è carente. Negli anni dei governi tecnici o “designati” sembra essere sparito il dibattito attorno ai LIVEAS, i Livelli Essenziali nella prestazioni di Assistenza Sociale; ora, si può immaginare che il dibattito aperto attorno alla riforma degli ammortizzatori sociali e al Reddito minimo porti con sé una attualizzazione e un rilancio della riforma dei LIVEAS, nella direzione di una loro maggiore cogenza e esigibilità? Se sì, quali sono a suo avviso le prime innovazioni all’ordine del giorno?
CS: Non sono del tutto d’accordo con la prima osservazione. Oltre ai sostegni integrativi, anche i livelli di generosità dell’importo base (che aumenta con l’ampiezza della famiglia) variano molto da Paese a Paese. Ad esempio nei Paesi scandinavi si parla di sostegno per mantenere un livello di vita adeguato, non “minimo”. Certo, in tutti i Paesi si cerca di evitare che il reddito minimo sia più alto del salario minimo – legale o di fatto. Dipende anche se ci sono assegni per i figli di tipo universale (che quindi possono essere fruiti anche dai poveri), oppure no.
Quanto alla seconda parte della domanda, premesso che mi sembra che la questione del Reddito minimo sia del tutto scomparsa dall’agenda, non credo che vi sarà un rapporto tra riforma degli ammortizzatori sociali e definizione dei LIVEAS. Appartengono a due ambiti discorsivi diversi nel discorso pubblico e dei policy makers. E la questione dei LIVEAS mi sembra del tutto scomparsa. La via per cui potrebbe essere ripresa, più che quella degli ammortizzatori sociali, mi sembra quella della spending review, da un lato, e della ridefinizione delle autonomie (ovvero il Titolo V) dall’altro.
Nel rifiutare la logica dei tagli lineari si dovrebbe argomentare su quali sono i servizi e le prestazioni che vanno garantite uniformemente sul territorio nazionale e da chi. In questa prospettiva non promette bene il suggerimento di rendere l’assegno di accompagnamento soggetto al test dei mezzi, invece di pensare di trasformarlo in servizi, o in un voucher servizi, che avrebbe il doppio risultato di garantire che le risorse vadano effettivamente ai bisogni di cura e di sostenere un mercato sociale della cura. Sul fronte dei minori, occorrerebbe concentrare le risorse sui servizi educativi più efficaci sul piano del contrasto alle disuguaglianze: servizi per l’infanzia, tempi pieni scolastici di qualità nelle aree più disagiate e così via.
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