Gli effetti economici della crisi turca

Gli effetti economici della crisi turca

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Delle conseguenze politiche del fallito golpe in Turchia stiamo avendo, in questi giorni, già contezza. Colpisce, addirittura, la rapidità con cui le stesse si stanno delineando, quasi che ci fosse una loro preordinazione, un loro sviluppo programmato.

Più difficile è una previsione degli effetti che la nuova situazione potrà avere sull’economia nazionale e, a cascata, su quella europea ed internazionale. Nondimeno, uno sguardo al quadro macroeconomico del Paese può aiutare a comprendere ciò che bolle in pentola, ad individuare i lati scoperti di un’economia che, negli ultimi anni, ha più volte fatto parlare di sé, nel bene e nel male. Incominciamo dai livelli di crescita.

Dal 2002, anno dell’ascesa al potere dell’Akp di Erdogan, ad oggi la ricchezza nazionale si è più che triplicata. In media, l’economia è cresciuta ad un ritmo del 4,5% annuo, con picchi più recenti del 9,2% e 8,8%, rispettivamente nel 2010 e nel 2011. Per il 2016 la crescita attesa è del 3,5%. Nonostante questi numeri, il tasso di disoccupazione rimane però ancora elevato (oltre il 10%), in linea con la media dell’eurozona, dove insistono invece stagnazione e deflazione.

Come si spiega questa asimmetria? Evidentemente, con le specifiche condizioni dello sviluppo di questi anni, con il modo in cui è stata sostenuta la domanda da dieci anni a questa parte. C’entra, com’è facile dimostrare, l’indebitamento abnorme delle famiglie, il ricorso convulsivo al credito da parte di milioni di cittadini. Non si spiegherebbe, altrimenti, un’inflazione al 9% con salari medi che non superano i 400 euro al mese (pesa anche il dumping salariale indotto dallo sfruttamento dei profughi siriani nel settore manifatturiero ed agroalimentare) ed una pesante sperequazione sociale che persiste nel Paese, tra centro e periferia, città e campagna.

Il credito, quindi. O i debiti, che forse rende meglio il concetto. L’esposizione da utilizzo di carte di credito è cresciuta ad un ritmo del 30% negli ultimi anni: oggi, il debito delle famiglie vale più del 50% del reddito disponibile delle stesse. Nel complesso, i prestiti erogati dalle banche, in gran parte inesigibili, perlopiù direttisi verso investimenti improduttivi, rappresentano adesso il 60% del Pil. Una vera e propria bomba ad orologeria, che proprio la precipitazione della crisi politica e la sua gestione potrebbero repentinamente innescare.

Più credito, più importazioni, più deficit delle partite correnti, più debito con l’estero. Un’ubriacatura collettiva, utile alle mire di dominio senza freni della nuova classe politica al potere. In fondo, la rivolta di Gezi Park fu soprattutto un rifiuto di questo stato di cose, di un modello economico basato sulla droga del credito e la speculazione immobiliare.

Stiamo arrivando al dunque. Sebbene nell’ultimo biennio si sia avuto un miglioramento dei conti con l’estero, il peso dello stock di debito estero accumulato negli anni rimane un problema serio per la Turchia. Così come continua a rimanere un problema serio la sostenibilità dei saldi negativi di bilancio su base annua, ora al 4,5% del Pil.

Si capisce, infatti, che il Paese ha fortemente bisogno di capitali stranieri per finanziare i suoi deficit di parte corrente, mentre la situazione di incertezza politica potrebbe determinare un deflusso degli stessi, un abbandono del Paese da parte degli investitori (il mercato azionario del paese rischia di crollare del 20%). Ne risentirebbero principalmente i servizi finanziari e assicurativi, il settore manifatturiero e industriale, verso i quali, solo nel 2014, si sono riversati all’incirca 12,5 miliardi di dollari di investimenti esteri. Con effetti devastanti sull’intera economia nazionale.

Di converso, il crollo della divisa nazionale rischia di mettere seriamente a repentaglio il rimborso dei debiti privati in valuta estera, a dispetto delle rassicurazioni che in queste ore giungono dal governo. Tra i bancari, secondo un report di Deutsche Bank, gli istituti più esposti con la Turchia sarebbero lo spagnolo Banco BBVA e l’italiana UniCredit, seguiti da BNP Paribas. In un contesto, quello europeo, segnato da presagi foschi sul futuro del comparto bancario, vieppiù suffragati dall’assenza di una garanzia europea sui depositi, il precipitare della situazione turca potrebbe moltiplicare i rischi di una nuova, e più perniciosa, crisi sistemica.

Più in generale, un forte arretramento dell’economia turca farebbe pagare pegno innanzitutto ai suoi principali partner commerciali, Russia e Cina in primis, ma anche all’Italia, che si colloca al quinto posto, comunque dopo la Germania, nella classifica mondiale dei paesi fornitori di beni e servizi alla Turchia (10 miliardi di euro il volume delle esportazioni nel 2015). E questo, per un’economia che ancora non riesce a tirarsi fuori dalle secche in cui è caduta con la Grande Recessione, costituirebbe senza dubbio un problema.

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