Egitto, le sparizioni violente come sistema

Egitto, le sparizioni violente come sistema

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Quello che gli ex detenuti chiamano «l’inferno», gli uffici dell’Agenzia per la sicurezza nazionale che si trovano dentro il ministero dell’Interno, nel quartiere di Lazoughly, è ironicamente a pochi passi da piazza Tahrir.

Lì, cinque anni e mezzo fa, centinaia di migliaia di persone chiesero la fine delle brutalità e delle torture dell’era-Murabak.
Mubarak cadde e la sua polizia segreta, il Servizio per le indagini sulla sicurezza dello stato, fu sciolta.

Per rinascere con un nuovo nome, per l’appunto l’Agenzia per la sicurezza nazionale, ma con gli stessi effettivi. Nulla di strano che la tortura sia ripresa come prima e, oggi, peggio di prima.

Al Cairo è in atto quella che Amnesty International, nel suo rapporto pubblicato ieri, ha definito «un’ondata senza precedenti di rapimenti, sparizioni e torture». La situazione è precipitata dal marzo 2015, quando è stato nominato ministro dell’Interno, Magdy Abd el-Ghaffar, un uomo di lungo corso degli apparati di sicurezza.
Le organizzazioni locali per i diritti umani forniscono cifre inquietanti: nel 2015, oltre 1000 casi di tortura; da gennaio 2015 a maggio 2016, quasi 2500 casi di sparizioni forzate.

Queste due violazioni dei diritti umani vanno a braccetto.

Presi in pieno giorno per strada o rapiti di notte dalle loro abitazioni da agenti dell’Agenzia per la sicurezza nazionale dotati di armi pesanti, i «desaparecidos» egiziani – di solito, di sesso maschile e di età compresa tra i 14 e i 50 anni – vengono trattenuti anche per mesi, spesso ammanettati e bendati per l’intero periodo. Il 90 per cento di loro compare a un certo punto davanti a un giudice, ma spesso solo per passare da un luogo illegale di detenzione a uno ufficiale in attesa del processo.

Isolati dal mondo esterno, impossibilitati a contattare per settimane o mesi familiari e avvocati, i detenuti vengono sottoposti a pestaggi, stupri e scariche elettriche fino a quando non firmano «confessioni» che saranno poi usate come prove a loro carico nei processi, che termineranno con una condanna.

Tra gli scomparsi e i torturati ci sono anche i minorenni. Come Mazen Mohamed Abdallah: sottoposto a sparizione forzata nel settembre 2015, quando aveva 14 anni, è stato ripetutamente violentato con un bastone di legno per estorcergli una falsa «confessione».

O come Aser Mohamed, a sua volta 14enne al momento dell’arresto, vittima di sparizione forzata nel gennaio 2016 per 34 giorni, nella sede dell’Agenzia per la sicurezza nazionale di Città 6 ottobre. Durante quel periodo è stato picchiato, colpito con scariche elettriche su tutto il corpo e sospeso per gli arti. Alla fine è stato portato di fronte a un procuratore che lo ha minacciato di ulteriori scariche elettriche quando ha provato a ritrattare la «confessione».

Le sparizioni forzate hanno un impatto devastante su centinaia di famiglie, lasciate sole a interrogarsi sul destino dei loro cari. Alcune denunciano la scomparsa dei loro cari al ministero dell’Interno e alla procura per sentirsi spesso rispondere che «non risulta».

Quel «non risulta» proclamato più volte in questi cinque mesi anche rispetto alla sparizione e alla tortura di Giulio Regeni. Ma nonostante i dinieghi e i depistaggi delle autorità egiziane, il rapporto di Amnesty International rivela le similitudini tra i segni di tortura sul suo corpo e quelli sugli egiziani morti in custodia dello stato. Ciò lascia supporre che la sua morte sia stata solo la punta dell’iceberg e che possa aver far parte di una più ampia serie di sparizioni forzate ad opera dell’Agenzia per la sicurezza nazionale e di altri servizi d’intelligence in tutto il paese. Il governo del presidente al-Sisi si ostina a negare che in Egitto si verifichino sparizioni forzate.

Gli viene facile, grazie alla complicità del potere giudiziario: la procura accetta che l’Agenzia per la sicurezza nazionale falsifichi le date d’arresto per nascondere il periodo in cui i detenuti sono sottoposti a sparizione forzata, emette incriminazioni basate su “confessioni” estorte sotto coercizione e non dispone quasi mai indagini sulle denunce di tortura.

E a proposito di complicità, in nome della lotta al terrorismo, della Libia, del contrasto all’immigrazione, l’Egitto continua a essere considerato dagli Usa e dall’Unione europea un paese affidabile e strategico, cui continuare a vendere armi e sistemi di sorveglianza senza porsi il problema dell’uso che se ne farà nella violazioni dei diritti umani.

Ignorando e tradendo Giulio e le centinaia di altri scomparsi e torturati, che ieri Amnesty International Italia ha ricordato al Pantheon, riempiendo la piazza di corpi bendati e incappucciati.

* portavoce di Amnesty International Italia

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