Dublino per il «remain», o quasi
Gli esiti del referendum sulla Brexit possono avere conseguenze di un certo rilievo, non soltanto per gli equilibri tra le nazioni d’Europa, ma anche tra quelle del Regno Unito. Conseguenze sia a breve che a lungo termine; ma, e questo può sorprendere non poco, anche conseguenze già visibili. Negli ultimi due anni, ad esempio, la richiesta di passaporti irlandesi da parte di cittadini britannici è aumentata esponenzialmente. La Repubblica d’Irlanda concede la cittadinanza a chiunque nato all’estero abbia un genitore irlandese; e, con qualche restrizione, anche a chi abbia un nonno o una nonna irlandesi. E così, nel 2014 e nel 2015, tra i cittadini nati nel Regno Unito con un nonno o una nonna irlandesi, la cifra delle richieste di doppio passaporto è salita del 33%, mentre è cresciuta dell’11% quella di cittadini britannici con un genitore irlandese. In Irlanda del Nord, dove il diritto è automatico ma va fatta richiesta, parliamo del 14% per cento in più, sempre nello stesso periodo. Non esistono ancora dati ufficiali per il 2016, ma la tendenza appare confermata; e sebbene all’atto della richiesta non è necessario dichiararne il motivo, sondaggi dimostrano che si tratta proprio della paura della Brexit.
Il sentimento in Irlanda del Nord, rispetto all’imminente referendum, è tanto articolato da sembrare contraddittorio. Quasi come in Scozia. Qui, stando ai sondaggi precedenti all’omicidio di Jo Cox secondo cui la forbice si restringerebbe, la maggioranza degli elettori tenderebbe a voler rimanere nell’Ue. Eppure, esiste un motivo di una certa importanza per il quale, anche chi è orientato a votare remain, come gli elettori dello Scottish National Party, potrebbe voltare faccia alle indicazioni del proprio partito. Il movimento di Nicola Sturgeon è infatti per restare, ma la maggior parte dei suoi elettori, assieme a quanti hanno nel 2014 votato a favore dell’indipendenza, sembrano costituire anche la maggioranza di quanti opterebbero per il leave. Questo perché, probabilmente, se si verificasse la Brexit, un nuovo referendum sull’indipendenza scozzese sarebbe alle porte, e a quel punto una maggioranza a favore dell’Ue e contraria a una provinciale unione con l’Inghilterra, sarebbe più che probabile.
Qualcosa di simile avviene in Irlanda del Nord, dove il maggior partito di sinistra e repubblicano, lo Sinn Féin, è per restare in Europa; ma il suo vice-presidente e vice primo ministro, nel governo misto con gli unionisti, Martin McGuinness, ha anche lui paventato l’ipotesi di un referendum: un referendum sulla riunificazione dell’Irlanda, col pretesto, viene di dire, di restare nell’Ue. Ragione più che sufficiente a spingere anche qualche repubblicano doc a votare per lasciare l’Ue, sognando come risultato l’Irlanda unita. Scenario futuristico, si dirà; ma un sogno del genere potrebbe rivelarsi destabilizzante, risvegliando vecchi rancori e animosità dormienti.
Tuttavia, la situazione politica nelle sei contee dell’Irlanda del Nord è più complessa che nel resto del Regno Unito. I lealisti ultraconservatori (Dup e Tuv), assieme ai nazionalisti di Ukip, fanno campagna per abbandonare l’Europa. Invece, tutto il campo repubblicano e la sinistra (Sinn Féin e Sdlp), assieme all’unionismo moderato (Uup e Alliance) sono per restare. Gerry Adams ha spiegato a più riprese che la Brexit avrebbe ripercussioni enormi per i cittadini del Nord, in quanto verrebbe a ricostituirsi un confine ora invisibile che divide, ma senza dogane o check point, l’Irlanda dall’Irlanda del Nord, e che in futuro separerebbe, con tutte le dogane del caso, Europa e Regno Unito. Un confine che non c’è, significa scambi commerciali facilitati; e infatti il ragionamento di Adams si rivolge soprattutto a quei settori produttivi che operano proprio lungo la direttrice nord-sud.
Secondo Adams, oltre alla questione economica, esistono anche altri problemi riguardanti i diritti umani: il parlamento britannico totalmente sovrano e indipendente dall’Europa potrebbe non adeguarsi a quella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea utili a difendere gli interessi dei repubblicani da una giustizia inglese che per tanti decenni li ha calpestati senza troppe remore.
Va detto, però, che non tutta la sinistra crede a simili scenari apocalittici. Ad esempio, una voce autorevole come quella della ex parlamentare europea dei Verdi, Patricia McKenna, bolla tali paure come infondate, e reclama il diritto dell’Irlanda del Nord, e dunque del Regno Unito, a sottrarsi alle politiche neoliberiste che hanno di fatto compresso la sovranità nazionale, fino a imporre politiche di austerità eterodirette. La sua è la campagna Green Leaves.
Fintan O’Toole, tra i più ascoltati opinionisti dell’Isola di smeraldo, ricorda come la scelta a favore del Brexit sia vessillo principalmente di un nazionalismo inglese conservatore e aggressivo, che non si cura affatto dei bisogni delle varie nazioni del Regno Unito. Ma poiché, secondo O’Toole, quelle nazioni vorranno prima o poi a loro volta liberarsi dal giogo di un paese sempre più piccolo, la sua previsione, in caso di uscita dall’Ue, è una condizione di isolamento che l’Inghilterra non ha quasi mai conosciuto nella storia: una riduzione, a lungo termine, della Great Britain alla sola England. Scenario piuttosto fantasioso anche questo, ma la prospettiva di un’Inghilterra non più isola, e quindi non più protetta neanche dal più grande degli isolanti, il mare, potrebbe ironicamente render ragione a una profezia riguardante i cugini irlandesi, a cui dà voce una meravigliosa ballata di Dominic Behan: «Il mare, il mare, grande gioia del mio cuore / Che tu possa restare a lungo tra me e l’Inghilterra / È una sicura garanzia che un giorno saremo liberi / Oh, grazie a Dio, siamo circondati dall’acqua!».
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