Aborto non garantito, Italia fuorilegge
L’Italia viola il diritto alla salute delle donne che vogliono accedere ai servizi per l’interruzione della gravidanza, e i diritti dei medici e di tutto il personale sanitario non obiettore – la minoranza, ormai – che viene discriminato sul lavoro. La legge 194/1978 non è dunque applicata, e la Costituzione disattesa.
Non è una notizia, è sotto gli occhi di tutti. Ma da ieri, malgrado la ministra della Salute continui a negare, la violazione di diritti fondamentali costituzionali è sancita anche da una sentenza del Consiglio d’Europa che dà ragione al reclamo collettivo presentato il 17 gennaio 2013 dalla Cgil. Beatrice Lorenzin evidentemente non ne ha mai avuto sentore – protesta, parla di dati vecchi – sebbene la decisione di merito del Comitato Europeo dei Diritti Sociali, resa pubblica ieri, fosse nota al governo italiano già dal giorno in cui è stata adottata, il 12 ottobre 2015. Solo l’esecutivo italiano avrebbe potuto interrompere il lungo embargo, scaduto ieri, a cui è stata sottoposta la decisione del Comitato presieduto da Giuseppe Palmisano, ma se n’è guardato bene.
Il motivo è chiaro: il Consiglio d’Europa dichiarando il ricorso ammissibile scrive esplicitamente che la Cgil ha «fornito una ampia gamma di prove che dimostrano che i medici non obiettori» – quelli che «forniscono servizi di aborto nel rispetto della legge» – «affrontano diversi tipi di svantaggi che si accumulano al lavoro, diretti e indiretti, in termini di carico di lavoro, distribuzione di incarichi, opportunità di carriere ecc». Il sindacato inoltre ha ragione nel sostenere che le norme sull’obiezione di coscienza contenute nella legge 194/1978 non vengono applicate adeguatamente, violando così anche la Carta sociale europea. Viceversa, sentenzia il Comitato di Strasburgo, il governo italiano «non ha fornito praticamente alcuna prova» per confutare questo dato, e «non ha provato che la discriminazione non sia diffusa».
È invece evidente, precisa l’organizzazione europea, che in alcune regioni italiane il numero di strutture che assicurano l’aborto è inferiore al 30% e che «le strutture sanitarie ancora non adottano le necessarie misure per compensare le mancanze del servizio fornito, causate dal personale medico che decide di invocare il suo diritto di obiezione di coscienza, o le misure adottate sono inadeguate». Ne deriva una «discriminazione su base territoriale e di status socio-economico tra le donne incinte che hanno accesso all’aborto legale e quelle che non l’hanno». Con gravi responsabilità delle «autorità regionali di supervisione competenti».
La ministra Lorenzin si dice «stupita» della sentenza che riconosce la mancata protezione del «diritto garantito delle donne all’accesso all’aborto», pur riservandosi di «approfondire» la faccenda: «Mi sembra si rifacciano a dati vecchi che risalgono al 2013. Il dato di oggi è diverso. Dal 2013 a oggi abbiamo installato una nuova metodologia di conteggio». Come prova, Lorenzin chiama di nuovo in causa l’ultima Relazione presentata al Parlamento nel novembre scorso dove il governo sostiene che la copertura del servizio «è più che soddisfacente», conclusione non giustificata però dal Consiglio d’Europa. «Non ci risulta una sfasatura – insiste la ministra della Salute – Ci sono soltanto alcune aziende pubbliche che hanno qualche criticità dovute a problemi di organizzazione della singola regione e della singola azienda e siamo intervenuti anche richiamando le regioni e le singole aziende, ma siamo nella norma, anche al di sotto».
In effetti nel ricorso presentato tre anni fa la Cgil aveva raccolto i dati fino al 2013 spiegando che i ginecologi obiettori erano allora il 70% mentre dieci anni prima si fermavano al 57,8% e aggiungendo che «nel Sud Italia queste percentuali possono arrivare anche a superare l’85%, come in Basilicata». Ma quei dati, replica Loredana Taddei, responsabile politiche di genere Cgil, vennero poi «aggiornati alla pubblica udienza che si è tenuta davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo il 7 settembre 2015 e non sono mai stati smentiti dal Ministero della Salute e dal Governo italiano come ha attestato il Comitato Europeo».
In sostanza, la «nuova modalità di conteggio» del ministero della Salute non è poi così nuova. Rileva Strasburgo che il governo non ha fornito i dati «sul numero di donne a cui i sono stati negati i servizi a causa della mancanza di personale non obiettore». Anche per questo, «le carenze attuali descritte rimangono presenti e le donne che hanno bisogno dell’accesso ai servizi per l’aborto continuano a dover affrontare notevoli difficoltà». Tanto che, come nota il Comitato, molte donne sono costrette a rivolgersi a strutture fuori dalla propria regione o addirittura all’estero, senza il supporto delle istituzioni pubbliche competenti.
Non ci sono scuse. «È una vittoria per le donne e per i medici, ma anche per l’Italia», commenta la segretaria nazionale Cgil, Susanna Camusso. Ora non rimane che procedere, aggiungono i responsabili della Funzione pubblica, Cecilia Taranto e Massimo Cozza, con «un’assunzione straordinaria di personale sanitario, insieme al conferimento di responsabilità dirigenziali a chi applica a pieno la legge 194».
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