L’Istat e le statistiche di terza generazione
In questi giorni si è parlato dell’Istat e delle sua ristrutturazione interna. Condividendo le perplessità espresse da esperti sulla esclusione di dirigenti competenti che hanno dato in questi anni nuove statistiche al paese e prestigio all’Istat, va approfondita la discussione aperta sul futuro dell’Istat e delle statistiche pubbliche nel nostro paese.
Nella storia dell’Istituto di Statistica si possono individuare tre fasi. La prima, le sue origini, è quella della concentrazione sui censimenti della popolazione e sulle statistiche sull’agricoltura, sulla scuola e sulla salute. L’Istat delle origini era, come è evidente, un organo statale funzionale alle esigenze conoscitive e di azione politica del tempo: un paese prevalentemente agricolo, con i problemi demografici e socio sanitari connessi. Parliamo degli anni trenta del secolo scorso. Ne è passato di tempo da allora e, come è naturale, l’evoluzione delle attività dell’Istat ha seguito quella della società italiana.
Così a quella prima fase nel corso dei magnifici trenta anni seguiti alla fine della guerra caratterizzati dalla crescita impetuosa dell’economia ne è seguita un’altra: si sono sviluppate le statistiche economiche con la nascita della contabilità nazionale, del Pil e della distribuzione dei redditi ai fattori della produzione. Si è, così, allargato il campo di osservazione statistica andando ben oltre gli aspetti puramente demografici e ponendosi all’altezza della società industriale matura, delle logiche e della cultura del mercato che hanno caratterizzato quei decenni.
Una terza fase ha preso avvio, proprio verso la fine di questo periodo quando negli anni ottanta hanno cominciato a manifestarsi i primi segni di rallentamento di quello sviluppo economico ed ha cominciato a crescere l’attenzione verso aspetti non più solamente economici, ma più sociali e di qualità della vita. Si è allora prodotto il più importante cambiamento nella vita dell’istituto: la sua trasformazione in ente di ricerca. Ed in questa fase si sono sviluppate statistiche sociali, indagini multiscopo su diversi aspetti, oggettivi e soggettivi, della vita delle persone e della sua qualità, che ci hanno fatto conoscere aspetti mai prima misurati, dalla povertà alle disuguaglianze di genere e di generazione, dalla violenza sulle donne alla divisione dei ruoli e del carico familiare, penetrando così nelle pieghe più nascoste della società contemporanea e collocando le statistiche italiane all’avanguardia dell’Europa e non solo. Il culmine di questo processo è stato, a mio parere toccato negli anni della presidenza Giovannini durante i quali si è messo in piedi quello straordinario progetto di nuovi indicatori di benessere per andare oltre il Pil, inserito in un più ampio progetto europeo e mondiale, di superamento del Pil come indicatore chiave dello sviluppo di una società.
E’ chiaro che quando il campo di indagine si amplia dalle primitive statistiche demografiche e sociali che nascevano dalle statistiche amministrative, come sottoprodotto delle attività proprie di tutte le amministrazioni pubbliche, ad aspetti che riguardano le persone singole ed i nuclei familiari e sociali, quando si spazia su aspetti qualitativi e soggettivi, quando si passa dai censimenti di tutta la popolazione ad indagini campionarie, e quando si toccano aspetti della vita economica e sociale che incrociano la politica, le sue azioni ed i suoi effetti si entra su un terreno minato e delicato. Su questo terreno si stava per aprire una crisi quando, in coincidenza, con le politiche del lavoro avviate dal governo Renzi e con la necessità di misurarne gli effetti, il ministero del Lavoro ed a ruota anche l’Inps hanno cominciato ad utilizzare i loro dati amministrativi, facendone una lettura politica, scambiando addirittura contratti con posti di lavoro, ed aprendo un conflitto con le informazioni che provenivano dall’Istat e dalle sue statistiche sul lavoro arrivando al paradosso di affermare che i dati del ministero erano certi, mentre quelli dell’Istat erano frutto di campionamento. Debbo riconoscere che l’Istat ha saputo resistere a quelle pressioni e che grazie alle sue indagini sta emergendo la verità vera sugli effetti delle politiche sull’occupazione. Non mi iscrivo, non voglio, al partito di chi pensa che dietro la ristrutturazione dell’Istat possa esserci l’arruolamento tra le fila del renzismo. Penso che, però, la strategia produttiva dell’Istat debba essere discussa esplicitamente e che sia un problema non tecnico, ma politico. Per tornare alle fasi vissute dall’Istat nel tempo vorrei, perciò, esprimere una preoccupazione ed una speranza.
La preoccupazione è questa: utilizzare meglio le informazioni amministrative che stanno nei database di tutte le amministrazione e farlo con la massima efficienza e con i criteri più moderni di elaborazione del bigdata è cosa sana e giusta. Ma questo non dovrebbe avvenire a scapito delle statistiche sociali, ambientali e culturali, oggettive e soggettive di cui abbiamo parlato.
La speranza è, al contrario, che la razionalizzazione della produzione di statistiche esistenti liberi risorse ed energie per rafforzare il campo delle statistiche di “terza generazione”. Intendo con questo temine riferirmi ad una svolta storica che penso occorra avviare: le economie mature sono in una stagnazione forse di lungo periodo, ma la storia non si fermerà certo ad aspettare cosa dobbiamo misurare e come dobbiamo farlo. Con il Bes – Benessere Equo e Sostenibile – si è aperta una nuova fase che guarda al futuro.
Per la nuova società e nella nuova società dobbiamo misurare più e meglio i tanti aspetti della vita delle persone che vanno oltre il reddito monetario, che riguardano la qualità della vita, dell’ambiente, del paesaggio della relazioni umane, della soddisfazione della vita della salute, dell’istruzione, della cultura, della solidarietà, delle disuguaglianze. Misurando questi fenomeni l’Istat potrà meglio contribuire alla costruzione di una nuova società. Misurando questi fenomeni l’Istat potrà costruire il suo futuro.
Altrimenti basterebbe un bel centro di elaborazione dei dati esistenti e prodotti dalle amministrazioni. Significherebbe sì ridurre i costi, ma anche annullare il percorso evolutivo dell’Istat e il suo contributo alla storia del nostro paese.
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