I due fratelli kamikaze dovevano essere in cella Trovato il testamento “Non finirò come Salah”

I due fratelli kamikaze dovevano essere in cella Trovato il testamento “Non finirò come Salah”

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BRUXELLES In un raggelante déjà vu che ha a che fare con la sociopatia prima ancora che con l’islamismo, i fantasmi delle stragi di Zavantem e Maelbeek prendono nomi e forme che abbiamo imparato a conoscere il 13 novembre, a Parigi. Perché di quella mattanza sono la coda. I tre kamikaze di martedì mattina (il quarto attentatore, in fuga, non è stato ancora identificato) hanno ora nomi e storie che raccontano la miscela velenosa tra l’odio che alimenta chi cresce nei ghetti di Molenbeek e Schaerbeek e chi parte o torna dalla jihad in Siria. Che mettono in un’unica sequenza il 13 novembre 2015 e il 22 marzo 2016. E, ancora una volta, documentano l’inerte afasia di un sistema giudiziario e di prevenzione che ha visto crescere il mostro in casa e ha scelto di guardare altrove.

Erano cresciuti tra la strada e il carcere, dove sarebbero dovuti rimanere fino al 2017 e al 2020, i fratelli Ibrahim e Khalid El Bakraoui, 30 anni da compiere il primo, 27 il secondo, nati a Molenbeek e a Molenbeek diventati prima feroci banditi di strada e quindi soldati dell’Is arruolati per procura nella cellula di Salah Abdeslam e Abdelhamid Abaaoud. Quella che avrebbe fatto strage a Parigi prima di colpire a Bruxelles. Ma era cresciuto nelle strade dei ghetti anche Najim Laachraoui, 25 anni, nato in Marocco e diventato adulto sui marciapiedi di Schaerbeek. “Artificiere” delle stragi di Parigi e quindi artificiere e kamikaze di quelle di Bruxelles.

Tutti e tre educati a una violenza per la quale erano noti alla giustizia belga. Tracciati anche dall’Interpol, almeno dall’autunno dello scorso anno. Così facili da fermare che nessuno in Belgio avrebbe deciso di farlo. Né prima, né dopo che si erano manifestati per quel che erano. Se è vero, come sostiene ora (smentito dalla procura belga) il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che Ibrahim El Bakraoui era stato fermato lo scorso anno al confine siriano ed espulso verso la sua Bruxelles. Ibrahim, Khalid, Najim, dunque.

LE ULTIME ORE

I tre ragazzi trascorrono le ultime ore da vivi insieme al quarto ricercato senza nome (l’uomo che le immagini della video sorveglianza di Zavantem mostrano con un giaccone chiaro) in una palazzina di Schaerbeek, al 4 di Rue Max Roos. In quelle stanze diventate un laboratorio di morte, hanno stipato 15 chili di Tatp (il perossido di acetone, l’esplosivo che ha fatto strage a Parigi), 150 litri di acetone, 30 di acqua ossigenata e valigie gonfie di chiodi e bulloni. In quelle stanze, intorno alle 7 di mattina del 22 si separano. Khalid si avvia alla linea 1 del metro dove, intorno alle 9, si farà saltare nel secondo vagone del convoglio fermo alla stazione di Maelbeek e diretto ad Arts-Loi. Il fratello Ibrahim, insieme a Najim e al quarto uomo ancora senza nome, chiamano il centralino di “Taxis Verts” per avere una macchina che li porti a Zavantem.

DUE VALIGIE DI TROPPO

Il taxi nero dalle strisce gialle che arriva è troppo piccolo per il carico di morte, 5 valigie, che i tre vogliono portare con sé. E il tassista, un marocchino, è troppo pignolo per fare uno strappo alla regola. Di borsoni ne carica solo tre. Gli altri due restano nell’appartamento. Lascia quegli strani tipi (di cui si ricorderà e testimonierà dopo la strage) a Zavantem. Alle 7 e 58 minuti e 28 secondi la prima esplosione alla fila 11 del check-in bagagli. Alle 7 e 58 minuti e 37 secondi, la seconda deflagrazione alla fila 2. Una terza valigia, quella carica dell’ordigno più potente, viene abbandonata dall’ennesimo martire riluttante (il quarto in fuga) ed esploderà dopo l’arrivo degli artificieri, senza fare altre vittime.

A MANO ARMATA

Non dovrebbero essere lì Ibrahim e Najim. Come non dovrebbe essere Khalid nel metrò di Maelbeek. Lo dimostra persino il testamento audio che Ibrahim affida al suo pc prima di gettarlo in un cestino in rue Max Roos. E dove è evidente che l’uomo non corre verso il paradiso delle Vergini, ma fugge l’incubo di un carcere che ha già conosciuto. «Non so più che fare», dice. «Non sono più al sicuro. Mi cercano ovunque. Mi faranno finire in una cella accanto a Salah».

Già, perché Ibrahim, il 30 gennaio 2011, ha trasformato una rapina all’agenzia Western Union di Boulevard Adolphe Max, a Bruxelles, in un infermo. Ha fatto fuoco con armi da guerra prima su una pattuglia della polizia di Ixelles, quindi ha forzato un posto di blocco in square de Trooz. Si è infine arreso in una palazzina di rue Wauthier. Il 30 settembre 2011 lo condannano a soli 9 anni contro i 13 chiesti dalla Procura. Ne sconta a stento tre. Nel 2014 è di nuovo a spasso sulla “parola”. Insieme al fratello, Khalid, che nel 2012, di anni ne ha presi 5 per aver rubato un’auto armi in pugno, ma che il carcere non lo vede. Pena sospesa.

Già, di Ibrahim e Khalid non sembra importare nulla a chi che sia. Almeno fino ai mesi che seguono il 13 novembre, quando si sco- pre che è Khalid ad aver affittato con falso nome (Ibrahim Maarouf) l’appartamento di rue du Fort, a Charleroi, dove, la notte del 12, hanno dormito Abdelhamid Abaaoud, Salah Abdeslam e Bilal Hadfi (il kamikaze dello stade de France) diretti verso Parigi. E che è ancora Khalid l’affittuario della casa di Rue du Dries dove, il 16 marzo, Salah sfugge una prima volta alla cattura. Nessuno vede neppure Najim Laacharoui. È nato in Marocco nel ’91, ma è cresciuto a Schaerbeek, dove ha studiato da elettrotecnico nel cattolico Institut de la Sainte-Famille e si è guadagnato la cittadinanza belga. Il 9 settembre 2015 viene fermato in una Mercedes al confine ungherese-austriaco con Salah Abdeslam. Ma diventa un ricercato solo il 4 dicembre, per le stragi di Parigi di cui è stato l’artificiere. Lo scorso febbraio è condannato a 15 anni per reclutamento di jihadisti. Lui è sparito nel nulla da tempo.

 


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