Sulla Libia la linea la detta Napolitano

Sulla Libia la linea la detta Napolitano

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Ieri sera i corpi di Salvatore Failla e Fausto Piano non erano ancora arrivati in Italia. Forse nella notte: «Se Dio vuole«, come dice la Procura generale di Tripoli. Dovrebbero partire «appena terminata l’autopsia», la quale invece è stata fatta davvero. Senza alcuna autorizzazione, anzi alla faccia delle proteste delle famiglie delle due vittime.

La tragedia, dopo giorni e giorni di annunci puntualmente smentiti, si è colorata con le tinte della beffa. Per sua fortuna Renzi gode di un appoggio mediatico senza precedenti nella storia repubblicana. Qualsiasi altro governo, dopo una figura simile, sarebbe stato crocefisso, con l’assoluta mancanza di autorevolezza e rispetto internazionali a far da chiodi. Una realtà già dimostrata dalla nonchalance con cui gli americani, una volta scoperte le loro attività di spionaggio, neppure si sono peritati di porgere formali scuse, e soprattutto dalle continue prese in giro del governo egiziano dopo l’assassinio di Giulio Regeni. Ma Renzi è Renzi e così tutti fingono di non vedere e stringono il bavaglio. Tranne le famiglie delle vittime. La moglie di Failla ha rifiutato i funerali di Stato per suo marito: «Lo Stato non lo ha tutelato».

Ieri, dopo giorni e giorni, il governo si è finalmente deciso a informare il Parlamento, senza scomodarlo a decidere con voti di sorta. Il ministro degli Esteri Gentiloni si è rivolto al Senato in mattinata, la responsabile della Difesa Pinotti al Copasir, nel pomeriggio. Alle prese con l’aula di palazzo Madama, Gentiloni ha escluso che sia stato pagato alcun riscatto, ma ha ammesso che la vicenda degli ostaggi italiani presenta ancora «molti punti oscuri». Quanto alla guerra, ha ripreso i toni e gli argomenti rassicuranti adoperati dal premier nelle interviste domenicali, glissando sul cambio di marcia dopo l’incontro con Hollande.

Parole davvero ferme quelle del ministro degli Esteri: «Il governo non si farà trascinare in avventure davvero inutili e persino pericolose per la nostra sicurezza nazionale. Non è sensibile al rullar di tamburi e a radiose giornate interventiste, ma interverrà se e quando possibile su richiesta di un governo legittimo». Il richiamo alle «radiose giornate» del 1915, quando l’impeto di una minoranza guerrafondaia impose una guerra antiparlamentare, non è casuale: prepara il terreno all’immancabile promessa di lasciare al Parlamento l’ultima parola. Come Costituzione impone:

«Lavoriamo per rispondere a eventuali richieste di sicurezza del governo libico, solo dopo il via libera del Parlamento».
Gentiloni non spiega perché mai, meno di 24 ore prima, il capo del governo, a fianco del collega francese, avesse invece dichiarato che «i libici devono sapere che il tempo a loro disposizione non è infinito». Nemmeno risponde ai molti che gli chiedono come sia possibile che il governo americano disserti nei particolari sulla quantità e qualità delle truppe italiane che entreranno in azione. Al suo posto lo fa Giorgio Napolitano, da par suo: «Forse gli americani hanno detto quella cifra, 5.000 uomini, perché più o meno tanti ne avevamo impiegati in Afghanistan». Senza vergogna.

Non ha solo fornito la più ridicola tra le spiegazioni possibili il presidente emerito. Ha parlato come se fosse lui il capo dello Stato, e del resto persino nel cerimoniale del Colle gode di un trattamento pari a quello di Sergio Mattarella, rispetto al quale resta tuttavia ben più loquace. Il vero discorso del governo, ieri, lo ha fatto lui, e ha illustrato nel dettaglio cosa il «suo» Paese è disposto a fare e cosa invece è fuori discussione. Ci sarà una vasta coalizione internazionale contro l’Isis, ha ripetuto per la seconda volta in due giorni. L’Italia ne farà parte ma certo non col ruolo di guida: «Sarebbe grottesco».

Altra cosa è la missione in Libia, quella sì capitanata dal belpaese, ma solo con funzioni «di supporto alla stabilizzazione istituzionale e politica e di supporto a un governo legittimo capace di preservare l’integrità territoriale della Libia». Il che non vuol dire escludere il ricorso alle armi in nome di «un pacifismo di vecchissimo stampo che non ha ragion d’essere nel mondo di oggi».

La palla è poi passata alla ministra Pinotti, che, di fronte al Copasir, ha escluso interventi senza che un governo unitario chiami l’Italia, mentre ha difeso a spada tratta l’invio di forze speciali, di fatto sotto il diretto comando del primo ministro. Pinotti ha anche insistito sulla necessità di evitare quella tripartizione della Libia che era stata evocata in mattinata al Senato dall’ex ministro Mauro Mauro e alla quale aveva fatto cenno lo stesso Napolitano. Un passaggio che spiega molto sul reale stato delle cose, specie se sommato agli equilibrismi di un governo capace di volteggiare in 24 ore dalla presenza di un governo unitario come condizione imprescindibile per un intervento, alla minaccia implicita di muoversi comunque se quel governo non nascerà presto per tornare poi alle posizioni di partenza.

L’intervento ci sarà, ma quando e con quanto impegno, sia militare che economico, resta oggetto di un braccio di ferro internazionale, che vede l’Italia da una parte, la Francia e gli Usa dall’altra. Così come il tema, persino più scottante anche se inconfessabile, della spartizione delle aree di egemonia e controllo. Qualcosa che somiglia molto da vicino a una forma di neocolonialismo.



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