I pellegrini di Fukushima “Tra i fantasmi radioattivi per dire no al nucleare”
NAMIE C’È UN cartello che nessuno ha toccato. Dice: «Energia nucleare, il futuro luminoso dell’energia». Accoglie i sopravvissuti allo tsunami che ha causato il più tragico incidente atomico della storia. Dopo cinque anni qui possono tornare solo gli sfollati, una volta al mese, per controllare l’impatto del tempo sulle macerie delle loro case. Di «luminoso» non c’è nulla e non c’è nemmeno l’energia elettrica. Non servirebbe. Namie è a otto chilometri dalla centrale di Dai-ichi, che il mondo conosce come Fukushima: nessuno è tornato a vivere nel cuore radioattivo del Giappone. «La ricostruzione e la rinascita — dice Shinichi Niitsuma — sono una bugia: questa regione è condannata a restare vuota». Fino alle 14.46 dell’11 marzo 2011 era insegnante. Ora fa la guida nei tour del “turismo nero”: accompagna i giapponesi a visitare il “Ground Zero” delle centrali nucleari. Il dosimetro che misura le radiazioni avverte che in un giorno negli hot-spot si assorbe ancora il livello di cesio che l’organismo umano può sopportare in anno. Ai turisti non importa: vogliono vedere le città-fantasma della prefettura di Fukushima, sbirciare nelle case sventrate e sfilare davanti ai cancelli dei tre reattori fusi. Non è solo “guardonismo” dell’orrore. La maggioranza viene qui in pellegrinaggio. Vuole testimoniare la propria opposizione al piano di riapertura delle 53 centrali spente, annunciato dal premier Shinzo Abe. «Non è un viaggio felice — dice un’altra guida, Akiko Onuki — però è necessario. Il governo assicura che il Giappone orientale sta tornando alla normalità: chi viene può testimoniare che è falso e che questa catastrofe può ripetersi altrove. Io sono qui per espiare la colpa di non aver detto “no” al nucleare con la forza necessaria ».
Nel Tohokou, i mondi del dopo 2011 sono due: quello chiuso attorno ai reattori di Fukushima e quello riaperto dopo terremoto e tsunami, nelle prefetture di Miyagi e Iwate. Nel primo, tremila operai lavorano al raffreddamento degli impianti e gli scienziati analizzano i mutamenti biologici e genetici. Dietro una routine rassicurante, la realtà è spaventosa. Risaie e boschi sono coperti da montagne di sacchi di plastica. All’interno sono conservate le scorie atomiche rimosse con le ruspe. La stima era di 15 milioni di tonnellate di terra contaminata: siamo a 30 milioni, ma gli scavi sono superficiali e si fermano dove arrivano le strade. Tra Okuma e Futaba le discariche nucleari occupano venti chilometri quadrati e 113 mila siti. «Ciò che vediamo — dice l’ex allevatore Masami Yoshizawa — non può essere nascosto. Colonne di camion sfilano ogni notte carichi di sacchi: le autorità non rivelano la destinazione ». Greenpeace denuncia che l’intera regione di Fukushima è ridotta a una «immensa discarica nucleare» e che «le conseguenze del disastro dureranno secoli». Ricerche indipendenti certificano che la radioattività è stata assorbita da animali e piante, sorgenti e campagne, dalle colline e dall’Oceano. Mutazioni ereditarie sono già visibili in uccelli, insetti, pesci e vegetali. «Oltre 300 mila tonnellate di acqua usata per raffreddare i reattori — dice il biologo Joji Otaki — sono finite nel Pacifico e altre 400 tonnellate scorrono ogni giorno sotto la centrale. Pioggia e vento spargono le scorie nei luoghi risparmiati dall’esplosione. Dal punto di vista ecologico, il programma di decontaminazione non può ottenere risultati».
I costi però vengono presentati. Lo Stato ha già speso 118 miliardi di dollari. Entro il 2020 ne serviranno altri 232. La Tepco, gestore della centrale, aveva promesso che se ne sarebbe fatta carico. «Invece — dice il professor Kinichi Oshima dell’università di Kyoto — le risorse arrivano dall’aumento di tasse e bollette». Per il 70% dei giapponesi che si oppongono al riavvio dei reattori, è uno scandalo peggiore delle omissioni che hanno aggravato il disastro. «Il cesio di Fukushima impregna il terreno e si è depositato sul fondo dell’oceano — dice Kendra Ulrich di Greenpeace — non si può sollecitare i sopravvissuti a tornare in zone sconvolte da una contaminazione pesante».
Anche oltre l’area interdetta del resto i giapponesi non si fidano dei politici. A Namie si contano dodici persone. A Naraha su 8042 sono rientrati in 440. In totale restano 174 mila sfollati, più gli emigrati per sempre. «Qui l’estinzione — dice Mitsuaki Okura, ex commerciante di verdura — è questione di tempo. L’80% di chi è tornato ha più di settant’anni». Non un bambino è iscritto a scuola, gli asili sono i primi edifici demoliti. Le classi registrano un calo di iscritti del 12,2% anche nelle prefetture vicine. Dai piani di ricostruzione sono stati cancellati parchi-giochi e palestre. In compenso Shinzo Abe, visitando Naraha a pochi giorni dall’anniversario, annuncia che «Fukushima entro il 2020 sarà trasformata in un centro per la produzione di energia a idrogeno». L’impegno è alimentare 10 nuove mila vetture all’anno con l’idrogeno stringendo un patto con i colossi nazionali dell’auto.
Tra i sopravvissuti queste promesse moltiplicano indignazione e rabbia. Oltre il limbo di Fukushima c’è infatti il secondo mondo creato dal terremoto e dallo tsunami, che l’11 marzo 2011 hanno causato 19 mila morti, 6 mila feriti e 400 mila edifici distrutti. Nelle regioni di Miyagi e Iwate la ricostruzione in alcuni casi è prodigiosa. È però l’opera più colossale a spaccare chi è stato risparmiato da scosse di grado 9 Richter e da un’onda alta 40 metri. La gente vede crescere quella che chiama “la Grande Muraglia giapponese”. È la mega-diga che dovrebbe proteggere le coste orientali dell’Honshu: 400 chilometri di muro in cemento, alto tra 10 e 15 metri, alzato sulle spiagge. Doveva essere ultimato quest’anno, invece i lavori sono fermi al 12,9%, in 73 zone su 568. «Il muro dovrebbe neutralizzare tsunami di primo grado — dice il sismologo Hisashi Suito — che si verificano più volte ogni secolo. Nulla potrebbe contro quelli di secondo grado, come quello del 2011. Ma se contro le calamità è inutile, era meglio affinare i piani di evacuazione». I residenti denunciano che la “Grande Muraglia” serve «a finanziare lavori pubblici, giustificare il riavvio dei reattori lungo le coste e alimentare il nazionalismo della rinascita». Per gli ecologisti si aggiunge l’orrore paesaggistico. «Lungo 2 mila chilometri di costa — dice Yuko Kusano, attivista di Sendai — l’oceano scompare. Le rivedremo solo quando ci sommergerà».
A Rikuzentakata un popolo di anziani accusa le autorità di voler «chiudere l’oceano in un secchio», adottando la stessa logica che a Fukushima costringe migliaia di decontaminatori a «chiudere la radioattività in un sacco». «Il Giappone — dice Jin Abe — deve dimostrare al mondo che le esplosioni atomiche possono essere superate e che ogni catastrofe naturale può essere neutralizzata. Prevalgono interessi economici enormi, interni e globali». Così si ricostruisce dove nessuno vuole tornare, si alzano i limiti della radioattività tollerata negli alimenti e si crea il mercato delle scorie.
Jin Abe nel 2011 è rimasto disperso tra le macerie di Kadonowaki per nove giorni. Sepolto vivo a 16 anni. La sua “resurrezione” è il simbolo della campagna governativa secondo cui il «Giappone resiste a tutto ». «Mentre morivo — dice — mi ripetevo che volevo vivere. Adesso invece capisco che ci sono eventi a cui non si sopravvive, anche se si rimane biologicamente in vita. Sono quelli favoriti dalla follia umana. La promessa immediata è “mai più”: pronta ad essere tradita il giorno dopo».
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