Calais. Ruspe e lacrimogeni la resistenza della Giungla

Calais. Ruspe e lacrimogeni la resistenza della Giungla

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CALAIS NEL fango gli operai raccolgono assi di legno rotte e teli di plastica. S’intravedono tazze, coperte, un libro in persiano. Anche se non sembra, l’ammasso di cose su cui passano le ruspe era qualcosa che assomigliava a una casa. “ Lieu de vie…” ha scritto qualcuno sulle capanne per ricordare che anche in un non luogo come la “Giungla”, in mezzo alla miseria che fingiamo di non vedere, c’è la vita.

I POLIZIOTTI sono schierati a difesa dell’impresa privata a cui tocca cominciare lo smantellamento di una parte dell’immensa baraccopoli sorta fuori Calais, a ridosso del mare. Accanto agli agenti c’è un cartello “School”, un rifugio per i bambini con una fornita biblioteca di libri in eritreo, persiano, afgano. Più in là un ristorante, “Ashram Kitchen”, una moschea, una chiesa, uno spaccio alimentari. Esiste persino un parrucchiere e un “hammam” dove con un euro si può fare la doccia. Nell’ultimo anno la Giungla è diventata una piccola città improvvisata nel vuoto delle risposte all’emergenza migratoria.

Il governo francese ha cercato una prova di forza per cancellare le tracce della vergogna. Doveva essere un sgombero «progressivo, volontario, e rispettoso della dignità umana», come aveva promesso il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve. È finita con una coltre di fumo nero che avvolge la boscaglia, tende incendiate, scontri tra agenti e migranti, lacrimogeni e cannoni ad acqua per disperdere la folla. «Ci hanno impedito di avvicinarci, non volevano testimoni» racconta Magalie Bourgoin dell’associazione Utopia 56. Di primo mattino, i volontari che da mesi portano soccorso alle famiglie di profughi sono stati tenuti alla larga da un cordone di sicurezza. Dopo che giovedì scorso il tribunale di Lille ha rigettato il ricorso delle Ong, l’evacuazione è iniziata all’alba. Le autorità avevano garantito che lo sgombero sarebbe stato l’ultima tappa di un dialogo con i migranti per convincerli a partire, trasferendoli in strutture pubbliche. Poi tutto è precipitato. «I funzionari della Prefettura hanno distribuito un volantino che dava un’ora di tempo per lasciare la zona prima della distruzione» spiega Magalie mostrando il pezzo di carta.

Lo Stato offre in teoria ai migranti di essere ospitati nelle tende, nei container riscaldati sistemati qualche metro più in là oppure in uno dei cento centri di accoglienza per richiedenti asilo sparsi in tutto il paese. Ma molte associazioni sostengono che i posti non sono sufficienti. E soprattutto la maggior parte dei profughi sogna ancora di andare nel Regno Unito, non vuole saperne di restare in Francia, dove non c’è lavoro e la xenofobia cresce. Le Ong hanno presentato un nuovo ricorso al Consiglio di Stato ma intanto le ruspe sono entrate in azione. Nel pomeriggio scoppiano i primi incidenti, alcuni migranti lanciano pietre contro gli agenti che rispondono con lacrimogeni. La polizia spara cannoni ad acqua per spegnere l’incendio di diverse tende. Secondo le autorità, gli scontri sono organizzati dal movimento No Border: quattro militanti vengono arrestati.

Un ragazzo curdo sale sul tetto di una baracca e minaccia di uccidersi con un coltello. Altri lo imitano ma senza crederci davvero. I profughi di Calais sono in un’impasse come ripetono i funzionari della Prefettura che da settimane tentano di convincerli a lasciare la Giungla. Quasi impossibile passare la Manica in modo clandestino, il ticket dei trafficanti costa oltre 10mila euro. Eppure stare in un vicolo cieco è l’ultima speranza. Quando è sera solo quarantina di migranti della Giungla accetta di salire su un pullman in direzione di Montpellier. «Non li obblighiamo a nulla, se poi vogliono tornare nella Giungla potranno farlo» dice con un paradosso Nathalie Seys, funzionaria della Prefettura. Un quinto dei migranti portati nei centri di accoglienza scappa e ritorna verso Calais oppure altrove sulla costa. Molti non hanno aspettato le ruspe. Hanno preso il loro fagotto e sono partiti verso Dieppe, Cherbourg, Ouistreham. Ovunque ci sia un porto, i sindaci temono nuove Giungle. Il Belgio ha deciso di chiudere la frontiera, e negli ultimi giorni ha già respinto centinaia di migranti.

L’effetto domino che attraversa l’Europa assomiglia sempre più a un assurdo e crudele gioco. «Nella Giungla si è creata una comunità con regole di accoglienza, ora i migranti saranno dispersi, più soli ed esposti” spiega Maya Konforti, portavoce dell’Auberge des Migrants. La “locanda” dei Migranti, con il suo quartier generale a Calais, è un piccolo esempio di un’altra Europa possibile. L’associazione che si occupa di distribuire pasti e vestiti è gestita da volontari francesi ma anche inglesi, belgi, olandesi, tedeschi. Alcuni chef britannici hanno preparato menù per i profughi e ci sono artigiani che hanno costruito delle baracche per affrontare l’inverno. Una “sciocchezza” secondo la prefetta di Calais, Fabienne Buccio, che non vede di buon occhio questa gara di solidarietà. L’Auberge continua a ricevere telefonate di cittadini europei che vogliono venire a dare una mano. «L’impennata di doni c’è stata dopo la diffusione della foto del piccolo Aylan» ricorda Christian Salomé, presidente dell’associazione. Era il settembre scorso, prima di scivolare di nuovo nell’indifferenza.



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