Il paranoico Robespierre

Il paranoico Robespierre

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Maximilien-Marie-Isidore Robespierre, nato ad Arras nel 1758, fu il più idolatrato ed esecrato uomo politico della Rivoluzione francese (Peter McPhee, Robespierre , traduzione di Luca Fontana, Il Saggiatore ). A trentun anni, raggiunse Versailles e poi Parigi. Aveva una giacca nera di panno, un panciotto di seta, un panciotto di raso, tre paia di pantaloni, sei camicie, sei colletti, sei fazzoletti, tre paia di calze, un paio di scarpe consumate. Si occupava molto della propria apparenza e della propria parrucca. Non era attraente. Era piccolo, anche per i suoi tempi, con un viso pallido e butterato. Aveva la vista debole, e a volte portava due paia di occhiali. Un incontrollabile tic nervoso gli deturpava gli occhi e la bocca.
Anche i giornali monarchici ammiravano la sua integrità morale: per i rivoluzionari, era l’Inflessibile, l’Incorruttibile, il Tesoro del popolo, l’incarnazione della Virtù nella storia del tempo. Gli avversari cercavano di spiare dietro questa apparenza virtuosa. Un oscuro rivale scriveva: «Il tuo fiato mefitizza l’aria pura che noi respiriamo. Il contrarsi delle palpebre esprime tuo malgrado la turpitudine della tua anima». Un altro nemico sosteneva che era un uomo truce, triste, bilioso, scontroso, geloso del successo dei suoi amici: aveva un’aria sgradevole, come quella di un gatto; e di continuo i suoi insidiosi occhi di felino dardeggiavano di qua e di là il terrore. «Guardatelo», disse un deputato. «Non gli basta essere il padrone. Vuol essere anche Dio». Qualcuno immaginava che fosse il Messia, a cui Dio aveva promesso di riformare ogni cosa. Qualcuno sosteneva che quell’aria di Messia fosse completamente fittizia. Per quasi tutti, amici e nemici, Robespierre era l’unico, vero Tiranno, tra le centinaia di mediocri membri della Convenzione, e sembrava uscito da una pagina di Tacito.
Arras, la sua città natale, era chiamata «la città dalle cento guglie»: un bastione di fede, un centro di potere della cultura ecclesiastica. Nell’ottobre del 1769, a undici anni, Robespierre venne condotto per la prima volta a Parigi: entrando in città, vide le strette strade sporche e puzzolenti, brutte case nerastre, e respirò il fetore delle Halles. Entrò in un famoso Istituto: il collegio Louis-le-Grand, dove studiò con passione e pertinacia, senza perdersi mai d’animo, brillando tra i compagni. Gli studi erano il suo Dio. Parlava poco: parlava soltanto quando gli altri sembravano disposti ad ascoltarlo, e sempre in tono deciso e sicuro di sé. Sebbene disperatamente insaziabile di lodi, le riceveva con un’aria di fredda modestia. Lesse l’ Etica di Aristotele: le Vite di Plutarco: Virgilio, Cicerone, Livio, Tacito; e soprattutto Rousseau, l’ Émile , il Contratto sociale , La Nuova Eloisa .
Da Rousseau apprese una parola, virtù, che nel resto della vita pronunciò e scrisse milioni di volte. Pensava di essere un «uomo virtuoso», chiamato a creare uno «Stato della virtù»: doveva rigenerare completamente il mondo, formando un nuovo popolo. «Noi — scriveva — vogliamo un ordine di cose in cui tutte le passioni basse e crudeli sono incatenate, e tutte le passioni generose e benefiche sono risvegliate dalle leggi. Noi vogliamo sostituire la morale all’egoismo, la probità all’onore, i princìpi agli usi, l’impero della ragione alla tirannide della moda, tutte le virtù e tutti i miracoli della Repubblica a tutti i vizi e al ridicolo della monarchia».
Raggiungere la virtù era terribilmente arduo. Si poteva raggiungerla solo attraverso il terrore: condannando, torturando, soprattutto mandando a morte i nemici del popolo. «Durante la Rivoluzione», egli scriveva, «il movente principale del governo è a un tempo la virtù e il terrore: la virtù senza la quale il terrore è funesto; il terrore senza il quale la virtù è impotente; il terrore che è giustizia, pronta, severa, inflessibile giustizia». Noi — insisteva — possiamo essere buoni soltanto se dietro ogni nostra parola, ogni nostra azione, appare ed echeggia la realtà, l’ombra, la terribile musica della ghigliottina.
La virtù aveva bisogno di un secondo soccorso: la religione. Robespierre aveva un profondo rispetto per la religione, che considerava come la stoffa squisita su cui ricamare la propria esistenza. Durante tutta la sua attività politica, anche quando parve più vicino alle idee radicali, si oppose con violenza a qualsiasi tentativo di «decristianizzazione». Esaltava la dottrina di Cristo, ed era convinto che il regno della superstizione fosse quasi alla fine. Per quanto possibile, evitava di attaccare la Chiesa. Quando, il 25 novembre 1793, la Comune decise di chiudere tutte le chiese di Parigi, pronunciò un discorso appassionato, insistendo che la Convenzione non avrebbe permesso di perseguitare i ministri del culto. «Se Dio non esistesse — diceva — bisognerebbe crearlo». Il culto dell’Essere Supremo, che egli proclamò nell’ultima parte della sua vita, si rivolgeva sia agli elementi popolari sia a quelli «illuminati» della Chiesa.
Nel 1789, subito dopo la presa della Bastiglia, Robespierre esaltò la causa della Rivoluzione. «L’aristocrazia sta morendo», diceva, «ma la sua protratta agonia non è senza convulsioni». Diventò membro del Club dei giacobini, dove parlava di continuo, con freddezza e furore. Fu eletto vicepresidente e poi presidente della Convenzione: primo deputato del V arrondissement, davanti a Danton e a Desmoulins; entrò nel Comitato di Salute pubblica, che nella primavera del 1794 dominò completamente. Nel settembre 1792, aveva appoggiato l’abolizione della monarchia e la proclamazione della Repubblica. «Il regno dell’eguaglianza comincia», annunciò.
A Parigi, iniziarono i massacri. Mentre gli eserciti stranieri varcavano le frontiere, tribunali popolari frettolosamente convocati condannarono a morte milleduecento persone: vennero uccise le guardie svizzere: sterminati i ribelli della Vandea; arrestati e poi ghigliottinati molti deputati girondini. Il 3 dicembre 1792, Robespierre disse: «Aborro la pena di morte. Non ho per Luigi XVI né amore né odio: odio soltanto i suoi misfatti. Luigi deve morire perché bisogna che la patria viva». Un mese dopo il re fu condannato a morte, e il 21 gennaio 1793 andò al patibolo, seguito da Maria Antonietta.
I massacri si moltiplicarono: Hébert, Danton, Desmoulins e i loro seguaci. Nell’aprile 1794 seimila sospetti affollavano le prigioni di Parigi: ottantamila quelle di tutta la Francia. Due mesi dopo sessanta persone, accusate di voler uccidere Robespierre, furono giustiziate a gruppi, indossando la camicia rossa: la camicia rossa dei parricidi, colpevoli di attentare al «padre» della Rivoluzione. Il numero delle esecuzioni capitali crebbe senza sosta: trentotto al giorno nel giugno 1794. Venivano ghigliottinate persone che, in altri tempi, sarebbero state condannate a poche settimane di carcere. Robespierre non amava la violenza: che si togliesse la vita a qualcuno gli faceva orrore: esecrava gli enragés , come l’abate Roux e soprattutto Fouché, che aveva fatto scorrere «torrenti di sangue» a Lione. Eppure egli era il cuore della violenza. Il Terrore era spaventoso, ma non poteva esserci — pensava — Rivoluzione senza Terrore.
Robespierre era un uomo fragile: non sopportava la condizione terribile, che egli aveva provocato e provocava. Scopriva dovunque congiure, complotti, cospirazioni reali e immaginarie, persino tra i giacobini e i montagnardi, che sedevano alle sue spalle nell’Assemblea. Era convinto che i nemici esterni ed interni della Rivoluzione fossero complici. Quando ci fu un attentato contro di lui, nel maggio 1794, la sua mente non resse. Tenne un discorso sovreccitato alla Convenzione, nel quale sembrava certo della morte imminente. Diventò sempre più cupo e sospettoso. Gli riusciva di parlare soltanto di assassinii, e poi ancora di assassinii, e sempre di assassinii. Aveva paura che la propria ombra lo assassinasse. Il suo giudizio personale, un tempo così acuto, lo abbandonò. Credeva che tutti gli anni dopo il 1789 — tutta la Rivoluzione — non fossero stati che un «atroce complotto».
Si ammalò: era sempre sull’orlo del collasso. Ci furono voci di avvelenamento. Quando compì i trentaquattro anni, era fisicamente, emotivamente, intellettualmente esausto. Paul Barras, che lo conosceva bene, scrisse: «Gli occhi spenti e miopi si fissarono su di noi. La faccia era di un pallore spettrale, con tinte verdastre. Stringeva a pugno e rilassava di continuo le mani, con un tic nervoso; e anche il collo e le spalle avevano spasmi convulsi». Nel luglio 1794 disse a un amico: «Sono il più infelice degli uomini».
Il 26 luglio 1794 proclamò l’esistenza di una cospirazione definitiva contro di lui. Non sapeva distinguere tra dissenso e tradimento. In quel momento, anche i deputati giacobini — i suoi deputati — si persuasero che la sua morte era «necessaria». Quando salì sulla tribuna, fu zittito da grida: «Abbasso Robespierre! Abbasso!». Un deputato sostenne che le sue spie seguivano ogni istante i membri della Convenzione. Un altro richiese un decreto d’accusa contro di lui. Robespierre gridò: «Condannatemi a morte!». La Convenzione ordinò l’arresto di Robespierre, di Saint-Just e di altri robespierristi, che vennero chiusi in prigioni diverse.
Il giorno dopo Robespierre tentò di uccidersi con una pistola. La pallottola gli fracassò i denti e la mascella. Era senza scorta, con le calze scivolate in basso, i pantaloni sbottonati, e tutta la camicia imbrattata di sangue. Quando venne condannato a morte, chiese carta e penna, per rivelare i suoi ultimi pensieri. Gli fu rifiutato. La ghigliottina fu portata a place de la Révolution, sul lato est delle Tuileries. Venti robespierristi vennero uccisi. Robespierre fu il ventunesimo. A malapena riuscì a salire i gradini del patibolo, con la testa avvolta in un panno sudicio ed insanguinato. Quando il boia gli strappò il bendaggio, la mascella inferiore di Robespierre si staccò del tutto e cadde al suolo. Fu sepolto in una fossa comune nel cimitero di Errances. Era il 10 termidoro: il 28 luglio 1794. Il Terrore era finito, divorando chi l’aveva immaginato.
Pietro Citati
***
Il volume Il libro di Peter McPhee Robespierre. Una vita rivoluzionaria è edito dal Saggiatore (traduzione di Luca Fontana, pagine 358, e 26) Nato nel 1948 in Australia, Peter McPhee insegna all’università di Melbourne. È considerato uno dei maggiori specialisti di storia della Rivoluzione francese, sulle cui vicende ha scritto numerosi saggi


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