Giulio tradito dai suoi report sui gruppi di opposizione “Intercettati dagli apparati”
Nell’estenuante nulla prodotto in quattordici giorni dall’inchiesta egiziana sull’omicidio Regeni — non un’evidenza, non una traccia di una qualche solidità che non siano gli esiti dell’autopsia effettuata al Cairo e, in mezzo, un testimone che nessuno ha trovato ma che si è presentato spontaneamente nella nostra ambasciata — c’è una costante. Che tradisce il problema. L’indagine egiziana, dal primo istante, ha girato e continua a girare al largo dai luoghi, dalle circostanze e dai testimoni che potrebbero aiutare a rispondere alla domanda chiave di questa vicenda e dunque dare un nome agli assassini. Quantomeno individuare in quale degli apparati di sicurezza dello Stato (servizio civile, militare, polizia, unità paramilitari) si nasconda la mano dei carnefici. E la domanda è: perché Giulio Regeni era diventato un obiettivo del Mukhabarat? Davvero si può credere che a farlo ritenere la “spia” che non era sia stata la partecipazione ad un’assemblea sindacale l’11 dicembre al Cairo, durante la quale venne fotografato? O addirittura, e con tutto il rispetto, un articolo scritto per il quotidiano “il manifesto”, circolato in rete a gennaio e quindi pubblicato postumo?
È difficile crederlo. E allora, se, come appare sempre più evidente, Giulio è finito in un gioco più grande di lui, conviene allargare lo sguardo.
Se infatti, come del resto ha cominciato a fare la Procura di Roma, si accende un faro sul dettaglio del tipo di lavoro che Giulio faceva da tempo come studente della Cambridge University a Oxford e, al Cairo, come dottorando dell’American University, si fa qualche interessante scoperta. Si scopre, ad esempio, come ha per altro riferito nella sua testimonianza alla Procura di Roma la professoressa Maha Abdelrahman, che di Giulio era la tutor, che il lavoro di ricerca di Regeni, per giunta proprio dopo l’assemblea dell’11 dicembre, aveva cambiato il suo “format”. Non più una semplice ricognizione analitica e su “fonti aperte” dei movimenti sindacali, ma una “ricerca partecipata”, embedded. Che prevedeva, dunque, una partecipazione diretta alla vita e alle dinamiche interne delle organizzazioni da studiare.
Un dettaglio che assume una sua rilevanza non solo per l’aumentato grado di esposizione che questo avrebbe comportato agli occhi paranoici degli apparati di sicurezza del regime, ma perché si combina con una seconda circostanza.
“I SISTEMI DI MOBILITAZIONE”
Giulio Regeni aveva un altro referente accademico a Cambridge. La professoressa Anne Alexander. E anche in questo caso, l’ambito di ricerca — come si legge dal profilo accademico della stessa Alexander, specializzata in Egitto e Siria — ha una sua particolarità. Ed è in qualche modo suggestiva, soprattutto se letta oggi. «Indagini sull’uso delle piattaforme digitali e gli strumenti di mobilitazione in Rete nei movimenti per il cambiamento politico in Medio Oriente, al fine di creare “sfere di dissidenza” e “nuove culture di attivismo”».
Non è difficile immaginare, dunque, perché il lavoro accademico di Giulio Regeni possa essere diventato un potente carburante della paranoia degli apparati egiziani. A maggior ragione se quel lavoro — come accade nel mondo accademico — viene condiviso e ha, sia pure in modo limitato, una sua circolazione non necessariamente solo universitaria. Quindi, la possibilità di essere rubato o intercettato, non fosse altro in un Paese dove il regime fa del controllo sistematico delle comunicazioni una religione. Scenario, questo, che trova per altro una sua solida conferma nelle parole di Khaled Fahmy, professore di storia all’American University e attualmente visiting professor ad Harvard. Intervistato dalla radio canadese Cbc dice: «Le autorità egiziane hanno da tempo le università come obiettivo. Perché sono ossessionate dalla disseminazione di informazioni sull’Egitto e dai luoghi in cui quelle informazioni sono prodotte. Soprattutto se si tratta di ricerche di studenti stranieri».
In questo quadro, dove tra le ipotesi non viene scartata quella che Regeni sia stato vittima di un conflitto tra diversi apparati di sicurezza dello Stato, non stupisce allora che anche il terreno dell’inchiesta sia oggi percorso da veleni e sospetti in cui nulla è mai come appare. A cominciare dalle parole del cosiddetto supertestimone che avrebbe visto Regeni prelevato dalla polizia in strada il 25 gennaio e smentite, con il passare delle ore, non solo dalle immagini delle telecamere nel quartiere di Dokki, ma anche da insuperabili contraddizioni di tempo e di luogo. Per finire all’autopsia. Non fosse altro perché in quella effettuata al Cairo sembrerebbero essere “sfuggiti” alcuni dettagli documentati dall’autopsia italiana, come i segni di bastonatura sotto le piante dei piedi, la rottura della vertebra cervicale, le fratture di gomito e scapola.
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